Poesia

“Le ferite delle fratture interiori”, la guarigione che diventa miraggio

A volte il disagio mentale si presenta a ondate. Dopo un lungo periodo di tregua – apparente, perché si tratta solo di risacca – ci si ritrova di nuovo travolti. Immersi ancora una volta in acque che si credeva di aver già navigato e superato, e che invece tornano a far riemergere traumi e far riaprire ferite mai realmente rimarginate. Il componimento dell’autrice ghanese Afia Amoaa Oppong-Kwakye descrive questa condizione di incredulità e impotenza di fronte alla forza del malessere psicologico che intorpidisce ogni volontà, fino a far apparire la guarigione come qualcosa di irraggiungibile.

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“Il giorno in cui guarirò”, la strada del ritorno dalla malattia mentale

Una poesia tutta coniugata al futuro, il tempo della speranza e della vita che verrà. Una vita che il nostro autore ruandese desidera fortemente libera dall’ansia e dalla depressione. Proiettarsi nel futuro significa pensarsi guarito e impegnato a diffondere consapevolezza sull’importanza della salute mentale. E guarire significa riuscire a prendere in mano una penna e scrivere, tornare nel villaggio dell’infanzia e dire a tutti gli uomini che, sì, anche loro possono piangere e condividere la loro sofferenza. E, infine, significa scrivere su tutti i muri la parola “resilienza”.

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“Depressione”, il suono della musica in quella morsa che si allenta

Spesso chi convive con una patologia finisce con il personalizzarla, considerarla come un’entità con una vita e una volontà propria. Così l’autrice tanzaniana Delphina Robert scrive, in forma poetica, una lettera alla depressione che, se fino a poco prima era con lei, ora se n’è andata improvvisamente. Nessuno l’ha avvisata di questa “partenza”, dice, ma ora l’assenza è evidente: la musica ha tutt’altro suono. E la sensazione iniziale di disagio, di trovarsi in una condizione diversa, lascia spazio al sollievo, e a un foglio bianco tutto da scrivere.

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“Crisi di mezzanotte”, per correre al riparo sotto il tetto del trauma

Le giornate si susseguono in una condizione di solitudine; la voce narrante racconta di essere lontana dalla famiglia e senza accesso ai mezzi di comunicazione. Osserva una foto di sé, una versione smagliante e piena di entusiasmo, ben lontana dalla percezione di quel momento. Da questa osservazione scaturisce un dialogo con il proprio io, alla ricerca dell’identità, della storia personale e famigliare; infine, di un senso di appartenenza. E così la mente va ai genitori, alla vita della nonna e ai traumi, individuali e intergenerazionali, un grande “ciclo di vita senza equilibrio” al quale cerchiamo di dare senso.

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“Resa al mittente”, la malattia che diventa amica ed eterna bugia

Una madre in visita, un rapporto complicato che emerge dalla volontà della figlia di evitare l’incontro. Di evitare lo sguardo preoccupato e inquisitivo della madre sul corpo che non “funziona” come dovrebbe, che rifiuta e si chiude. Quel corpo che la madre un tempo sfamava, ora respinge ogni forma di nutrimento e il suo lento sbriciolarsi e dissolversi provoca quasi piacere, un piacere che non si può dire. La poeta tanzaniana Lydia Kasese racconta tutto questo e di come la certezza che noi tutti torneremo un giorno nel luogo da dove siamo venuti diventi un alibi per cullarsi nella malattia e non reagire a questa forza che combatte il corpo e la mente.

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“Bollettino dal reparto C”, le parole ferite in una stanza d’ospedale

Questo testo di Sarah Lubala è una voce. Una voce che ci parla e legge un bollettino da un reparto psichiatrico. In un atmosfera surreale, di sogno, le immagini scorrono rapide davanti a noi come istantanee: un uccello morto, i corridoi rumorosi, una compagna di stanza con una lametta… Queste immagini si confondono con ricordi lontani che emergono improvvisi fino a prendere il sopravvento e lasciare spazio al trauma individuale e intergenerazionale. Nel frattempo, le lenzuola di lino “trascorrono l’estate alla finestra”: è la speranza, l’attesa della vita “là fuori” fatta di accettazione e guarigione.

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“Una lettera alla mia migliore amica”, la scrittura come guarigione

L’autrice tanzaniana Leah Gerald Soko racconta di aver scritto questo componimento di notte, con la mente e l’animo in subbuglio. Sentendosi impotente e incapace di fronte alle difficoltà della sua vita e, soprattutto, sentendo di non avere nessuno con cui confidarsi, ha deciso di scrivere. Una lettera alla sua migliore amica diventa l’occasione per aprirsi rispetto ai suoi sentimenti più nascosti, per affrontare le avversità e trovare la motivazione per accettare la sofferenza e decidere di voler guarire. Come Leah stessa ci ha detto, la scrittura ha aperto “un varco nella depressione e nell’ansia” e rappresenta ora uno strumento “per guarire e sentirmi forte e sicura.”

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“Finalmente in pace”, l’ultima pallottola per volare in alto nel cielo

Reem Yasir, poetessa sudanese, apre questo componimento poetico “in medias res”. La protagonista ha una pistola mano, è carica. Ha tre pallottole, tre opportunità da non sprecare per farla finita. Per mettere a tacere quella voce cattiva nella testa che da sempre commenta ogni azione e ogni pensiero insultando, denigrando. Ma sbaglia la mira e la voce si fa sempre più crudele. Il finale della poesia racchiude tutte le emozioni contrastanti di un momento così disperato: l’esasperazione di un’anima che non riesce ad appacificarsi e l’inespresso, commovente desiderio di poter vivere una vita diversa.

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“Disordine mentale”, la generazione che sognava pace e libertà

“[…] pezzi di me sono ovunque… e ovunque… sono i loro nomi… quelli che hanno affrontato la morte e ancora respirano… quelli che hanno affrontato la morte e da allora hanno soffocato quelli come me… Eppure… Ovunque ci sono ancora sognatori e so che creeranno realtà che la mia mente non riesce ancora a comprendere… In fondo, anche i bambini nascono combattendo… resistendo… stringendo i pugni… allora brindiamo alla generazione che sognava una nazione migliore… sognava pace, giustizia e libertà…” Sono le parole di Rajaa Bushra dedicate ai giovani rivoluzionari sudanesi. Rivoluzione che nell’autrice – come in tanti come lei – ha provocato un trauma mai rimarginato.

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“Vivere con il disturbo bipolare”, dubitare di se stessi e della realtà

La consapevolezza è il primo passo verso la guarigione e la scrittrice kenyota Emily K Millern lo sa. Scrive spesso dei suoi disturbi mentali e così trasforma un tema non tradizionalmente “poetico” in arte, ottenendo anche un effetto terapeutico per sé e per chi legge. La condivisione di esperienze molto intime “ci ricorda che non siamo soli, che facciamo parte di una battaglia più grande in cui ciascuno deve fare la propria parte”, come lei stessa ha detto. Emily, infatti, si occupa attivamente di sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema tanto delicato quanto trascurato come quello della salute mentale.

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