Autore: Gaia Resta

“Resa al mittente”, la malattia che diventa amica ed eterna bugia

Una madre in visita, un rapporto complicato che emerge dalla volontà della figlia di evitare l’incontro. Di evitare lo sguardo preoccupato e inquisitivo della madre sul corpo che non “funziona” come dovrebbe, che rifiuta e si chiude. Quel corpo che la madre un tempo sfamava, ora respinge ogni forma di nutrimento e il suo lento sbriciolarsi e dissolversi provoca quasi piacere, un piacere che non si può dire. La poeta tanzaniana Lydia Kasese racconta tutto questo e di come la certezza che noi tutti torneremo un giorno nel luogo da dove siamo venuti diventi un alibi per cullarsi nella malattia e non reagire a questa forza che combatte il corpo e la mente.

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“Dispatch from Ward C”, those wounded words in a hospital room

This poem by Sarah Lubala is a voice. It’s a voice that speaks to us as it reads a dispatch from a psychiatric ward. In a dreamy, surreal atmosphere, we see fleeting images as if browsing pictures taken in a hospital: a dead bird on the back stairs, the noisy corridors, a roommate with a razor blade… And these images get mixed with distant memories that suddenly and uncontrollably emerge and take over, making room for personal and intergenerational trauma. In the meantime stonewashed linen is “summering at the window” as a sign of hope, that life “out there” is possible – through acceptance and healing.

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“Bollettino dal reparto C”, le parole ferite in una stanza d’ospedale

Questo testo di Sarah Lubala è una voce. Una voce che ci parla e legge un bollettino da un reparto psichiatrico. In un atmosfera surreale, di sogno, le immagini scorrono rapide davanti a noi come istantanee: un uccello morto, i corridoi rumorosi, una compagna di stanza con una lametta… Queste immagini si confondono con ricordi lontani che emergono improvvisi fino a prendere il sopravvento e lasciare spazio al trauma individuale e intergenerazionale. Nel frattempo, le lenzuola di lino “trascorrono l’estate alla finestra”: è la speranza, l’attesa della vita “là fuori” fatta di accettazione e guarigione.

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“Una lettera alla mia migliore amica”, la scrittura come guarigione

L’autrice tanzaniana Leah Gerald Soko racconta di aver scritto questo componimento di notte, con la mente e l’animo in subbuglio. Sentendosi impotente e incapace di fronte alle difficoltà della sua vita e, soprattutto, sentendo di non avere nessuno con cui confidarsi, ha deciso di scrivere. Una lettera alla sua migliore amica diventa l’occasione per aprirsi rispetto ai suoi sentimenti più nascosti, per affrontare le avversità e trovare la motivazione per accettare la sofferenza e decidere di voler guarire. Come Leah stessa ci ha detto, la scrittura ha aperto “un varco nella depressione e nell’ansia” e rappresenta ora uno strumento “per guarire e sentirmi forte e sicura.”

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“A letter to my best friend” is a letter to oneself, a hope for healing

Tanzanian author Leah Gerald Soko recounts how she wrote this poem at night, her mind storming and troubled. Feeling useless and unable to do anything about her challenges in life and above all, feeling she had no one to talk to, she turned to writing. A letter to her best friend becomes the chance to open up about her innermost feelings, to face her difficulties and encourage herself to accept her pain and be responsible for her own recovery. In Leah’s words, writing has been “a breakthrough towards depression and anxiety” and it represents now a way “to heal and feel strong about myself”.

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“Finally at peace”, the last bullet will let you fly high in the sky

Reem Yasir, Sudanese poet, opens her poem “in medias res”. The protagonist has a gun in her hand, it’s loaded. There are three bullets, three chances of ending it. Of silencing that evil voice in the head that has always commented every action and thought insulting and belittling. But the protagonist misses and the voices becomes even more cruel. The final lines of the poem portray all the contrasting emotions that can be felt in such a desperate moment: the exasperation of a soul that can’t find any peace and the unspoken, touching desire for a different life.

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“Finalmente in pace”, l’ultima pallottola per volare in alto nel cielo

Reem Yasir, poetessa sudanese, apre questo componimento poetico “in medias res”. La protagonista ha una pistola mano, è carica. Ha tre pallottole, tre opportunità da non sprecare per farla finita. Per mettere a tacere quella voce cattiva nella testa che da sempre commenta ogni azione e ogni pensiero insultando, denigrando. Ma sbaglia la mira e la voce si fa sempre più crudele. Il finale della poesia racchiude tutte le emozioni contrastanti di un momento così disperato: l’esasperazione di un’anima che non riesce ad appacificarsi e l’inespresso, commovente desiderio di poter vivere una vita diversa.

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“Vivere con il disturbo bipolare”, dubitare di se stessi e della realtà

La consapevolezza è il primo passo verso la guarigione e la scrittrice kenyota Emily K Millern lo sa. Scrive spesso dei suoi disturbi mentali e così trasforma un tema non tradizionalmente “poetico” in arte, ottenendo anche un effetto terapeutico per sé e per chi legge. La condivisione di esperienze molto intime “ci ricorda che non siamo soli, che facciamo parte di una battaglia più grande in cui ciascuno deve fare la propria parte”, come lei stessa ha detto. Emily, infatti, si occupa attivamente di sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema tanto delicato quanto trascurato come quello della salute mentale.

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“Living with bipolar disorder”, questioning yourself and reality

Self-awareness is the first step towards healing and young Kenyan writer Emily K Millern knows it well. She often writes about her mental health struggles and so trasforms an unusual topic for poetry into art, achieving a therapeutic effect for herself and her readers. Sharing personal experiences – as her bipolar disorder – “reminds us that we are not alone, we are part of a bigger fight and we all have a role to play”, as she said. In fact, Emily strongly advocates for raising public awareness on mental health, a subject as sensitive as underestimated and neglected.

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“Agrodolce” è quel taglio nella pelle che soffoca il dolore dell’anima

Il disagio mentale può manifestarsi in svariate forme; alcune sono caratterizzate dall’autolesionismo, un circolo vizioso che conduce a punire il corpo, l’involucro del malessere interiore, fino quasi a trarne piacere. Questa esperienza viene raccontata con cruda sincerità da Mercy Bibian nel componimento poetico che qui presentiamo e che descrive il “viaggio” verso l’autolesionismo in singole scene di ispirazione cinematografica. L’esperienza del primo taglio e poi dei successivi, fino all’instaurarsi di una dipendenza dal dolore, dall’atto in sé del tagliarsi che – quasi inconcepibilmente – offre sollievo da pensieri e sensazioni che si fanno insostenibili.

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