Nobukho Nqaba e le performance dell’impermanenza e del viaggio
Oggetti precari, fugaci, temporanei. Plastica, coperte, tute da lavoro o oggetti anonimi. E poi il cammino, lo spostamento, con o senza meta. Il viaggio. E un arrivo che non può essere definito né definitivo. Perché quando si parla di migrazione non c’è nulla di certo, a volte neanche quando si arriverà e per quanto tempo ci si fermerà.
L’arte di Nobukho Nqaba ci porta a questo: storie, visionarie o reali di ciò che è transeunte, destinato a finire. Nobukho è nata in Sudafrica, a Butterworth, piccola cittadina rurale nella provincia di Eastern Cape. Ma già dall’età di sei anni, per vicende familiari, ha cominciato a sperimentare la migrazione interna.
Quando lei nasceva, nel 1992, erano in corso nel Paese quella lunga serie di negoziati che avrebbero portato alla fine dell’Apartheid, la cui data ufficiale è segnata il 27 aprile 1994, quando si svolsero le storiche elezioni che portano Nelson Mandela alla presidenza.
Sono anche vicende familiari – dicevamo – quelle che portano Nobukho a sperimentare il senso dell’alterità, della nostalgia di un luogo o di una persona (nel suo caso, il padre), della migrazione. Ed è per questo che la sua arte vede al centro una persona, un essere umano, lei. Le sue performance la vedono abbracciare quegli oggetti, farsene circondare, quasi a voler fermare quel senso costante di impermanenza.
Gli oggetti delle sue esibizioni – ospitate a Parigi, New York e in molte gallerie in Sudafrica – sono spesso borse di plastica, borse onnipresenti in Africa e ben note ai viaggiatori (non solo africani), quei viaggiatori il cui movimento è sinonimo di necessità.
Conosciute come “Ghana must go home“, qualcuno le chiama borse cinesi, poiché anche queste – come molta roba che ci circonda – è made in China. In lingua Xhosa si chiamano Unomgcana o Umaskhenkethe, dove Unomgcana significa “quella con le linee” e Umaskhenkethe significa “il viaggiatore”.
Molti i premi al suo attivo, come ricorda anche lo Zeitz Mocaa, museo di arte contemporanea a Città del Capo, che ha ospitato alcune sue performance.
Nobukho quando hai cominciato le tue performance artistiche e quali sentimenti/motivazioni ti hanno spinto a cominciare?
Ho studiato Belle Arti all’Università di Cape Town (Michaelis School of Fine Art). Mi sono specializzata in fotografia e ho poi scelto arte dello spettacolo come una delle mie pricipali materie del terzo anno. Volevo studiare qualcosa che mi permettesse di affrontare questioni socialmente rilevanti. Credo sia stato questo che mi ha spinto verso l’arte.
Nelle tue performance tu sei il soggetto e buste di plastica, coperte o altre cose che indossi rappresentano l’oggetto. O è esattamente l’opposto? O soggetto e oggetti sono la stessa parte che viene a formare un unico elemento?
È molto complicato parlare degli oggetti e dei soggetti come elementi solitari. Gli oggetti hanno la loro urgenza, significato e simbolismo, ma questi diventano più prevalenti con la presenza del soggetto (in questo caso, il mio corpo). Sto unendo i due per creare una narrazione e un dialogo, senza che uno prevalga sull’altro, ma usando sia il sé che l’oggetto come mezzo di comunicazione. Immagino che uno rafforzi l’altro.
Come donna, come artista donna, hai avuto esperienze di esclusione o qualche forma di discriminazione o resistenza?
Come donna nel mondo dell’arte non sono stata vittima di forme di esclusione palesi, ma penso che agli artisti uomini vengano offerte più opportunità, e sembrano anche avere più spazio nelle gallerie, negli eventi, in confronto alle artiste.
Perdita, senso di identità, solitudine: queste emozioni in qualche modo incarnano la tua arte. Come ti senti, quali sono i tuoi sentimenti nell’atto della creazione artistica?
Creo da uno spazio in cui sento fastidio. Vado verso queste cose che mi disturbano, è una sorta di processo interiore, e sento che quei malesseri sono spesso innescati dal vedere spazi e oggetti particolari che mi ricordano qualcosa. È attraverso ulteriori indagini che tiro fuori esattamente ciò che mi crea quegli stati d’animo. Penso, come tu hai detto, che la trama costante nel mio lavoro sia quella dell’identità. È un’elaborazione che parte dalle memorie dell’infanzia e da esperienze di chi proviene dalla classe lavoratrice.
L’atto della creazione artistica è in grado di ridurre lo stress causato da certe emozioni?
Sì, penso che quando faccio arte, in un certo senso riesco a liberarmi di ciò che mi stava caricando a livello emozionale. Creando, sto rinegoziando il mio stato d’animo e decostruendo sentimenti che non sono facili da spiegare attraverso le parole.
Le “tue” borse di plastica, l’uso che ne fai, sono simboliche di un movimento senza sosta, di un andare da un posto all’altro, da un Paese all’altro… possiamo dire che le tue esibizioni siano un simbolo, quindi, delle migrazioni contemporanee?
Sì, le borse che utilizzo sono un simbolo di migrazione e di esperienze di spostamento. Immagino si possa dire che il mio lavoro, quando viaggia in luoghi diversi, diventi anche un’espressione di significato. Penso, comunque, che sebbene il lavoro parli di migrazioni contemporanee, le sue radici sono profondamente radicate nel passato. Lavoro di fatto sulle esperienze passate, ma anche su quelle di altri che oggi provano lo stesso tipo di alienazione, di dislocazione. Il mio lavoro è un modo di affrontare un problema sociale in atto.
Ciascuna esperienza di migrazione è diversa dall’altra. Come consideri la tua?
Questo è vero. La mia, da sudafricana, è un’esperienza individuale e collettiva. Il mio è un movimento all’interno del Paese, tuttavia la scelta degli oggetti che utilizzo racconta una storia collettiva, quella degli sfollati, di chi è considerato l'”altro”.
Possiamo dire che il movimento continuo rappresenta anche un movimento continuo del pensiero, un’ossessione, forse una paura, quella di fermarsi a pensare, di riposare il corpo e la mente, di mettere a tacere l’ansia?
Il costante movimento fisico si manifesta sicuramente anche nella mente. Le persone si spostano spesso verso altri spazi per cercare una vita migliore. Tuttavia, con quel movimento arrivano anche la paura e l’ansia di come si verrà trattati negli spazi nuovi in cui ci si sposta. Non la definirei un’ossessione, ma la mancanza di qualcosa, che sia materiale o uno spazio di pace mentale. A volte capita di non avere scelta tranne quella di continuare a muoversi, perché non si è ancora trovato ciò di cui si ha bisogno.
Un grande problema, nelle moderne società africane, specialmente tra i giovani, è la disoccupazione. Una situazione che può generare mancanza di fiducia in se stessi e, in qualche caso, anche problemi mentali. Rispetto a questo cosa accade nel tuo Paese, il Sudafrica?
Sì, la disoccupazione è un grosso problema in Africa. Solo nel Sudafrica circa il 35% della popolazione è senza lavoro. Essere disoccupati provoca ovviamente povertà e un’ulteriore mancanza di accesso alle risorse necessarie che potenzialmente possono migliorare la vita delle persone. Non essere in grado di provvedere a se stessi può determinare la mancanza di fiducia in se stessi, e questo può comportare la sensazione di essere insignificanti e trascurati, e questo può potenzialmente mettere a rischio la salute mentale.
Un artista africano può contare sul suo lavoro di artista per vivere?
La realtà nel mio contesto è che pochissimi artisti sono in grado di fare affidamento sul proprio lavoro per mantenersi. Ad esempio, io insegno anche, e adoro farlo. Tuttavia, quello che ci spinge a cercare anche un’altra occupazione è che con l’arte si lavora solo in determinati periodi, non sempre. Un momento prima stai vendendo un tuo lavoro e quello dopo nessuno è interessato ad acquistarlo. Come artista indipendente, devo comprare i miei materiali e occuparmi anche della mia famiglia allargata. Non sarei in grado di fare queste cose se non avessi un altro lavoro. Alcuni dei miei amici artisti ne hanno più d’uno, di lavoro, per assicurarsi di rimanere a galla. Non è facile.
Qual è stata la reazione della stampa, della critica all’inizio della tua carriera? E com’è ora che sei diventata un’artista famosa?
Ho avuto un inizio piuttosto lento, se così possiamo dire. Ricordo di aver venduto alcuni pezzi alla mia festa di laurea, ma dopo le cose restarono ferme per un po’. Penso che pian piano le persone a me più vicine abbiano iniziato a notare il mio lavoro e a vederne la rilevanza. Ora sono abbastanza conosciuta, tuttavia devo ancora esplorare con attenzione il mondo dell’arte perché penso che il mio limguaggio e il mio mezzo espressivo ad alcuni provochi disorientamento. Gli oggetti che uso sono invece ben noti nella mia comunità e molte persone li riconoscono e avvertono emozione.
Qual è il ricordo più bello nella vita e il traguardo più importante come artista?
Mi sono successe tante cose belle ed è molto difficile dire quale sia la migliore. Tuttavia, posso dire di essere molto grata di aver avuto l’opportunità di andare all’Università, cosa che i miei genitori non hanno potuto fare. Lo stesso per quanto riguarda essere un’artista. Quindi il miglior traguardo, finora, direi che è stato poter incontrare persone interessanti, che mi educano e mi fanno crescere come individuo. Io non misuro i traguardi con cose tangibili, ma attraverso il valore che acquisisco dall’esperienza che mi viene da altri esseri umani. Credo che la saggezza superi in valore qualsiasi cosa materiale.
C’è qualcosa che vorresti dimenticare, che rimpiangi?
Non vorrei dimenticare nulla. Ho fatto molti errori lungo la strada e probabilmente ho ferito alcune persone durante il percorso. Ma sono grata anche per quelle esperienze, perché attraverso di esse sono stata in grado di crescere.
Sono curiosa: hai qualcuna di quelle borse di plastica in casa tua? Se è così che tipo di uso o di funzione hanno?
Sì, certamente. Le uso per conservare alcuni dei miei materiali artistici, e alcune sono semplicemente custodite per essere utilizzate nelle installazioni.
Ultima domanda: quali sono i tuoi programmi per il futuro?
È così difficile dirlo… spesso le cose non vanno secondo i piani. Guarda il covid-19, per esempio. Tutti abbiamo dovuto cambiare rapidamente i nostri piani e adattarci a modi diversi di fare le cose. Posso dire che vorrei proseguire negli studi e continuare a fare un lavoro utile, ma vorrei anche rimanere aperta al cambiamento e ad adattarmi a nuovi scenari.
[Link alla traduzione inglese a cura di Gaia Resta]