Africa, parasport e disabilità: riflessioni a margine di Tokyo 2020
Il 5 settembre scorso si sono conclusi i Giochi Paralimpici Tokyo 2020, che hanno visto la partecipazione di 41 Stati africani, 10 dei quali hanno raggiunto il podio.
I paratleti africani hanno conquistato 63 medaglie – tra oro, argento e bronzo – in diverse discipline. In testa si sono piazzate: Algeria (12, di cui 4 ori), Tunisia (11, di cui 4 ori) e Marocco (11, di cui 4 ori). Seguite da Nigeria (10, di cui 4 ori), Sudafrica (7, di cui 4 ori), Etiopia (1 oro), Egitto (7, di cui 5 argenti), Namibia (2, di cui 1 argento) Kenya (1 argento), Uganda (1 bronzo).
Rispetto alle Paralimpiadi Rio 2016, l’Africa non si è certo distinta né in termini di rappresentanza né di risultati ottenuti. Molti Stati, infatti, non sono stati in grado di far competere i propri atleti. E le medaglie vinte sono state 36 in meno. Un successo minimo se si considera anche che la Cina, come singolo Paese, ha portato a casa 207 riconoscimenti; la Gran Bretagna 124; gli Stati Uniti 104.
“Tokyo 2020” offre quindi lo spunto per una riflessione sulla scarsa importanza attribuita dal Continente al parasport, laddove questo rappresenta invece un potente strumento di integrazione e inclusione dei disabili tanto all’interno delle proprie società di appartenenza che a un più ampio livello globale. Non a caso, la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità stabilisce, all’art. 30, che gli Stati adottino misure adeguate a “incoraggiare e promuovere la partecipazione più estesa possibile delle persone con disabilità alle attività sportive ordinarie a tutti i livelli”.
Senza cadere in facili approssimazioni, va comunque detto che l’Africa – mosaico di 54 Paesi, ciascuno dei quali con proprie peculiarità culturali, politiche, economico-sociali – ha, nel suo complesso, un rapporto alquanto controverso con la disabilità sia sul piano della mentalità collettiva, sia su quello normativo e istituzionale.
Lo dimostra, ad esempio, il fatto che il Protocollo sui diritti delle persone con disabilità addizionale alla Carta Africana dei diritti umani e dei popoli, a distanza di 3 anni dalla sua adozione, non è ancora entrato in vigore. Eppure, era stato accolto con entusiasmo e considerato, da più parti, “una svolta storica per gli 80 milioni di disabili africani”.
Non solo, molti Stati non ancora hanno emanato “Leggi speciali” dedicate ai disabili ovvero prevedono normative insufficienti e lacunose. Ignoranza, tradizioni, superstizioni locali sulle cause della disabilità e le relative modalità di trattamento intervengono a completare un quadro già di per sé desolante.
In altre parole, abusi, discriminazioni, stigma continuano a essere una costante per i disabili africani, spesso del tutto invisibili. Esclusi da ogni opportunità di istruzione e occupazione. Ostacolati nello sviluppo delle loro aspirazioni. Ignari nella maggior parte dei casi dei loro diritti. E delle loro possibilità esistenziali: parasport compreso.
Condizione che peraltro si aggrava quando la persona con disabilità appartiene a determinati “gruppi vulnerabili”: bambini, donne, migranti.
“Non immaginavo neppure che lo sport potesse essere un’opzione da considerare. Da bambino mi tenevo nascosto in casa”, racconta il 19enne Ntando Mahlangu – campione paralimpico sudafricano di atletica leggera e salto in lungo – nel documentario Netflix “Rising Phoenix“.
L’esperienza infantile di Mahlangu è comune a quasi tutti i bambini disabili africani. Le ragioni sono rintracciabili in due fattori principali. Da un lato, l’assenza di personale qualificato e di adeguate strutture riabilitative; dall’altro, il mancato accesso al sistema scolastico.
Secondi i dati raccolti dall’African Child Policy Forum (ACPF), il Sudafrica – Paese relativamente benestante – ha 1 fisioterapista ogni 45.000 persone. In Uganda, solo il 18,5% dei bambini disabili ha accesso ai servizi specializzati di terapia e fisioterapia. In Senegal, la percentuale si abbassa all’11,6%. Va da sé che senza una corretta riabilitazione, il bambino disabile non sarà in grado di partecipare ad alcuna attività culturale, sportiva, ricreativa.
Riguardo all’istruzione, nell’intero continente appena il 2% dei bambini con disabilità frequenta la scuola a causa di barriere architettoniche, economiche, familiari, politiche. In cifre nazionali – a titolo esemplificativo – questo significa che: in Etiopia, il 48% dei bambini disabili non è mai entrato in un istituto scolastico; nella Repubblica Centrafricana il 67%; in Sierra Leone il 76%. La scuola è però, fra le altre cose, il luogo in cui di solito avviene il primo contatto con l’educazione fisica e lo sport.
Ntando Mahlangu – affetto sin dalla nascita da emimelia fibulare e costretto su una sedia a rotelle fino all’età di 10 anni– è stato in un certo senso “fortunato”. Dopo l’amputazione nel 2012 di entrambi gli arti, l’associazione benefica Jumping Kids lo ha infatti dotato delle sue prime lame. L’organizzazione inoltre gli ha garantito la possibilità di studiare e di praticare sport. Il talento ha poi fatto il resto. Ntando ha conquistato, all’età di 14 anni, la medaglia d’argento alle Paralimpiadi di Rio de Janeiro 2016. Il primo oro nei campionati mondiali paralimpici di Dubai (2019). E ancora oro quest’anno a Tokyo.
Il destino dei bambini disabili africani non può però essere affidato alla sorte o alla benevolenza di qualche ONG. Certo, pur praticando attività sportive, non tutti i piccoli con disabilità diventeranno stelle paralimpiche. Ma per tutti loro, l’accesso allo sport costituirà una chance di miglioramento della propria vita, nella misura in cui gli permetterà di “acquisire abilità sociali, indipendenza e capacità di muoversi come agenti di cambiamento”.
“Grazie alle lame ho imparato a volare. A esprimere me stesso“, dice Ntando. “Correre per la mia Nazione è un onore. E mi auguro di poter essere fonte di ispirazione per la prossima generazione di atleti paralimpici” sudafricani.
Il discorso fatto fin qui per i bambini, vale mutatis mutandis anche per le donne disabili africane. In questo caso, l’accesso allo sport – soprattutto alle competizioni nazionali ed internazionali – aiuterebbe senz’altro a ridurre, sul piano sociale, gli stereotipi di genere e le percezioni negative legate alla disabilità femminile.
Stravolgere la visione collettiva della disabilità attraverso una “rivoluzione culturale” è infatti l’obiettivo di Liliane Mukobwankawe, 32enne capitana della squadra nazionale rwandese di sitting volley e rappresentante delle donne per il Comitato Paralimpico del Paese africano.
“In Rwanda molti giovani con disabilità, soprattutto le ragazze, non vanno a scuola, non lavorano, neppure escono dalle loro stanze“, dichiara Liliane a un noto quotidiano italiano. “Se hai una disabilità non puoi fare nulla nella vita, devi solo stare chiuso in casa aspettando di morire“.
Liliane ha una disabilità acquisita all’età di 9 anni, dopo essere stata travolta da un’auto a Kigali mentre stava andando a comprare il latte. “Nell’urto mi si è rotta la gamba destra. Purtroppo non mi hanno curata in modo adeguato e l’osso si è irrimediabilmente deformato”. Liliane però non si è arresa. Ha iniziato a giocare a sitting volley nel 2012 e tre anni dopo è entrata nella squadra nazionale.
Il Rwanda è stato l’unico team dell’Africa subsahariana a qualificarsi per Tokyo 2020. I risultati sul campo non sono stati eccezionali. La vera vittoria della squadra è stata portare nel proprio Paese e nell’intero continente un messaggio fondamentale: lo sport rappresenta un mezzo attraverso cui migliorare la condizione di vita dei disabili.
“La mentalità sta cambiando e, grazie alla crescente popolarità dello sport paralimpico, in Rwanda oggi c’è molto più sostegno culturale. Ci sono più porte aperte per i disabili”, spiega Liliane. Diventa sempre più evidente che “uno dei modi migliori per sostenere le persone con disabilità è creare esperienze di comunità“.
Sentirsi parte di una comunità è il leitmotiv della squadra paralimpica rifugiati, che annovera tra i suoi paratleti il campione di taekwondo burundese Parfait Hakizimana, alla sua prima esperienza internazionale.
Il 32enne Parfait è arrivato a Tokyo direttamente dal campo profughi di Mahama in Rwanda. Lì vive dal 2015 dopo essere fuggito dall’ennesima ondata di violenza scoppiate nel suo Paese.
La disabilità di Parfait è frutto della guerra. All’età di 6 anni ha infatti perso la maggior parte del braccio sinistro nel corso di un attacco armato in cui la madre è stata uccisa.
“È stata la cosa più difficile da affrontare in vita mia”, racconta all’UNHCR. “Lo sport mi ha aiutato a superare il dolore vissuto durante l’infanzia“.
Scoperto il taekwondo, Parfait ha iniziato a partecipare a eventi nazionali e regionali, vincendo una medaglia dopo l’altra. Oggi, è cintura nera e allenatore certificato: insegna le arti marziali a 150 rifugiati, bambini compresi.
Per i rifugiati, “lo sport è molto più di un’attività di svago. Offre inclusione e protezione, l’opportunità di guarire da traumi passati, di crescere e coltivare le proprie capacità“, chiarisce Emilia Nuiselle Lobti, funzionario responsabile per la protezione dell’UNHCR.
Discorso che vale ancora di più nel caso dei disabili, i quali spesso “devono affrontare rischi e ostacoli maggiori per poter accedere all’assistenza e alle opportunità“.
“Lo sport ci aiuta a essere forti, anche quando la vita è difficile” perché “insegna il coraggio e il rispetto per gli altri”, dice Parfait.
La squadra paralimpica dei rifugiati – composta da 6 atleti di origine siriana, afghana e burundese – è nata dalla stretta collaborazione tra l’UNHCR e il Comitato Paralimpico Internazionale (IPC), che dal 2016 lavorano per fornire ai “migranti” disabili l’accesso al parasport nella convinzione di offrire loro uno strumento di inclusione e uguaglianza. Questo team “parla per conto di e rappresenta i 12 milioni di persone costrette a fuggire che hanno una disabilità“, sostiene Andrew Parsons, presidente dell’IPC.
Il Continente africano deve ancora percorrere molta strada per promuovere le attività parasportive e garantire l’accesso alle stesse a quanti più disabili possibili. Per quanto possa sembrare paradossale, intervenire sul piano legislativo – creando e integrando normative nonché politiche sociali – è di gran lunga più semplice che modificare una forma mentis radicata, tesa a guardare il disabile come un “essere inferiore” bisognoso solo di accudimento e cure.
Nell’ottica di contribuire al cambio di mentalità e rafforzare il ruolo sociale dello sport per disabili in Africa, il progetto “Para Sport Against Stigma“- creato dall’IPC in sinergia con la Loughborough University e l’Università del Malawi – ha reso possibile la trasmissione in chiaro dei Giochi Paralimpici di Tokyo in 49 Stati dell’Africa subsahariana.
Più precisamente, oltre 250 milioni di telespettatori hanno potuto guardare in diretta le cerimonie di apertura e chiusura della manifestazione. Inoltre, sono stati mandati in onda “pacchetti video” di 52 minuti incentrati sui paratleti africani in inglese, francese, portoghese.
Un’iniziativa lodata dagli stessi paratleti africani. Emmanuel Nii Tettey Oku, para powerlifter ghanese, ha infatti affermato: “guardarci lottare per le medaglie concorre a sfidare lo stigma, che troppo spesso è legato alla disabilità“.