Ghana, esorcismi e caccia alle streghe. Storie dai “Witch Camps”

(Tamale) – Nessuna ricorda la sua età, tutte sanno da quanto tempo sono qui. O almeno, rispondono senza indugi alla domanda. Secondo una percezione del tempo che appare diversa tra un prima e un dopo. Il prima era una vita da donne libere, il dopo è una vita di donne bandite dalla società.

Sono streghe, si dice. Hanno usato i loro poteri soprannaturali per fare del male, provocare siccità, dividere le famiglie, uccidere, si dice. Basta quel “si dice” per farne delle outcast, per scacciarle, picchiarle, persino linciarle. È accaduto molte volte. Una follia collettiva, che quando arriva deve scaricare la sua energia prima di fermarsi. La credenza nella stregoneria (witchcraft) rimane fortemente radicata nel Nord del Ghana (Northern Region). 

Villaggio
Sullo sfondo di un cielo velato dall’harmattan, si intravede il campo di Gnani nella Yendi Municipality, Northern Region, Ghana. Ci vivono 113 donne accusate di stregoneria. Con alcune di loro, soprattutto le più anziane, vivono figli o nipoti che se ne prendono cura. Anche per loro il campo diventa una punizione per colpe “invisibili”.

Una credenza legata a ignoranza, pregiudizi, gelosia, invidia persino, e che – non a caso in una società di tipo patriarcale – è accompagnata (oppure dettata) dalla misoginia, dal sessismo. Le accuse di stregoneria riguardano, infatti, soprattutto le donne (gli uomini solo in una piccolissima percentuale). E si tratta perlopiù di anziane, spesso vedove. Un capro espiatorio per chi – per ignoranza e cultura radicata – spiega malattie o “sfortune” come l’azione malevola di qualcuno.

In questa parte del Paese è una credenza consolidata nei secoli, difficile da sradicare e anche difficile da interpretare, tanti sono i fattori che la compongono. Per essere accusate e cacciate dalla propria comunità basta un nulla, il sogno di qualcuno che poi lo racconta agli altri: “quella è una strega, minaccia la mia famiglia”; la morte di qualcuno, soprattutto bambino o giovane; la convinzione di una “rivale”, così di solito viene definita l’altra moglie, ovviamente più giovane, del proprio marito. Poligamia e paganesimo sono molto diffusi, si tratti di persone di religione musulmana o aderenti alla religione tradizionale, appunto.

Donne anziane, dicevamo, che spesso dunque non sono altro che un peso per le famiglie, non possono più far figli, fanno fatica a lavorare o cominciano a comportarsi “in modo strano”. Un modo strano che altrove verrebbe identificato magari come demenza senile, ma che qui può diventare una condanna. Una condanna all’isolamento, lontano il più possibile dalla comunità di appartenenza.

Ad accogliere queste donne bandite dalla società sono i witch camps, sorta di rifugio secondo alcuni, una prigione a cielo aperto secondo altri. Sparsi nel Nord del Ghana ce ne sono sei, due sono stati chiusi solo recentemente grazie a progetti di rimpatrio. Rimpatri non sempre facili e che richiedono una serie di incontri e dialoghi con i membri della comunità affinché siano d’accordo e pronti a riammettere “la strega”. E a decidere sono gli uomini.

Si tratta di luoghi “amministrati” da un chief che ha una sorta di dovere morale di assistenza. In alcuni c’è anche lo shrine, il tempio dove le donne che arrivano si sottopongono a rituali e cerimonie che da un lato hanno il compito di accertare la “colpevolezza” della donna, dall’altro di eliminare tutti i suoi poteri. Una sorta di esorcismo tradizionale. Non c’è alcun dubbio infatti che quasi tutti credano nell’esistenza della stregoneria e nei poteri magici di queste donne, potenzialità soprannaturali che possono essere anche tramandate ai figli. È uno stigma che, una volta fissato sulla persona, è difficile da rimuovere.

Shrine
Negli shrine (qui nel campo di Kukuo, Nanumba South District) si compiono rituali e cerimonie per appurare se la donna è davvero colpevole delle accuse che le sono rivolte. Purtroppo, anche quando l’esito è negativo le donne non ritornano nelle loro comunità dove rischierebbero anche la vita.

Le stesse ONG e varie organizzazioni che si occupano a livello locale di questi campi, quando organizzano attività di sensibilizzazione all’interno delle comunità evitano di usare il termine superstizione proprio per non andare in conflitto con le credenze e le tradizioni locali. “Non è giusto picchiare le donne anziane” questo è il messaggio principale quando si organizzano confronti all’interno delle comunità di provenienza di queste donne. “Dobbiamo procedere per gradi, non possiamo fare diversamente” afferma Daniel Ngota della Witch Hunt Victims Empowerment Project.

E così la superstizione rimane inalterata sperando che passi il messaggio che riesca almeno a prevenire la violenza fisica su queste donne. Rimane la violenza psicologica, il dolore, l’abbandono. “Si tratta di una vera e propria violazione dei diritti umani” ci spiega Lamnatu Adam, direttrice della ONG Songtaba (che in lingua dagomba significa aiutiamoci l’uno con l’altro).

Molte di queste donne non riescono a superare l’umiliazione che hanno subìto, non riescono a dimenticare come sono state trattate e oltre alla perdita materiale di una vita un po’ più confortevole risentono della lontananza dai figli e dai nipoti.

Si tratta di donne psicologicamente provate e senza alcun supporto adeguato per superare il trauma a cui sono state sottoposte.

Il Ghana Health Service ritiene di non avere nessun obbligo di un approccio psicologico, di consulenze o cure. E non c’è nessuno sforzo in questo senso. Dopotutto questa viene considerata una questione che riguarda la sfera spirituale, non un problema sociale,

continua la direttrice della ONG. “Non sono poche le donne che manifestano pensieri suicidari. Molte ci dicono: vorrei non essere nata, vorrei che la mia vita finisse qui. Non dovremmo sottovalutare queste parole. Sono persone che soffrono”.

Ma la prostrazione di queste donne è anche causata dall’estrema indigenza in cui sono costrette a vivere. Le più fortunate ricevono di tanto in tanto la visita di uno dei figli (e quindi un po’ di denaro, di cibo, di sapone). Altre sopravvivono con quanto passa loro il chief o le organizzazioni che hanno programmi all’interno dei campi. Qualcuna rientra nel LEAP, un programma governativo sulla lotta alla povertà. Altre fanno lavori nei campi nei villaggi più vicini o altre piccole attività. Ma sono anziane, spesso ammalate, e per molte lavorare è impossibile.

Saltare i pasti è normale, pasti costituiti quasi esclusivamente da mais, niente proteine. A peggiorare la condizione di queste donne anche l’assenza di quei volontari, per esempio medici, che periodicamente venivano in questi campi per fare screening, fornire medicine o portare piccoli aiuti.

La pandemia ha conseguenze anche qui. Oggi sono meno di un migliaio le donne ospitate nei vari campi, in una decina d’anni ne sono state rimpatriate circa 220, ma altre – anche se parrebbe in misura minore a quanto avveniva in passato – continuano ad arrivare. La maggior parte di loro è destinata a morire e ad essere sepolta qui, lontano da casa. “Quando abbiamo i contatti dei figli li avvisiamo, ma non tutti sono disposti a venire a prendere la madre per seppellirla a casa” dice Lamnatu Adam.

Eppure in questi luoghi rimane acceso un sentimento, quello della solidarietà. Stare insieme, “condividere lo stesso fato” come ci ha detto qualcuna di loro, contribuisce a creare comunità. In uno stesso campo ci donne che provengono da villaggi ed etnie diverse, che parlano lingue diverse, eppure riescono a capirsi, a trovare motivi per ridere, per alleggerirsi il morale.

Gruppo donne
“Siamo qui tutte le lo stesso motivo” e così nel campo nasce la solidarietà. Alcuni, come questo di Kukuo, sono vicino alla comunità locale che, con la convinzione che le donne accusate abbiano perso i poteri grazie ai rituali del priest, non le isola, anzi interagisce con loro.

L’elemento più triste di questi luoghi (seppure di grande aiuto e conforto per queste donne) è la presenza di bambini o ragazzi (più spesso ragazze) molto giovani. Sono i figli delle donne accusate di stregoneria o nipoti mandati dalla famiglia ad accudirla. Alcuni vanno a scuola, molti no. Una generazione su cui ricade lo stigma della madre, della zia, della nonna. Uno stigma da cui è difficile liberarsi – anche quando gli dèi, al termine delle cerimonie rituali, dicono che non hai più poteri, che non puoi più fare male a nessuno.

In realtà in gioco ci sono le strutture sociali e di potere, che vedono le donne, le donne anziane, le donne prive di mezzi economici, sul gradino più basso di una scala sociale fortemente gerarchizzata. Una gerarchia fatta di uomini, uomini che possiedono la terra, uomini che decidono la vita delle donne. E di chief che per quanto si prendano in carico la vita delle “streghe” e la proteggano, continuano a trovare normale che ci siano donne accusate di crimini invisibili. Ma, dicevamo, si tratta di un fenomeno complesso, dove qualunque giudizio rischia di trascurare una parte della realtà. O di riuscire a vederla solo attraverso la propria lente.

[Nella galleria fotografica che segue diamo voce alle donne che abbiamo incontrato nei quattro campi visitati con l’ONG Songtaba e con la Witch Hunt Victims Empowerment Project. In parentesi gli anni di permanenza nel campo dichiarati dalle donne intervistate. Tutte le foto sono dell’autrice del reportage.]

2 thoughts on “Ghana, esorcismi e caccia alle streghe. Storie dai “Witch Camps”

  • Bellissimo pezzo. Grazie.

    Risposta
  • Questa realtà non mi sorprende, anche da noi succedeva nel passato
    , eccome, ma addolora che a tutt’oggi sia così difficile superarla. E personalmente mi strazia che anche in questo caso le vittime discriminate ed espulse dalle comunità siano quasi tutte donne.

    Risposta

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *