Africa e diritti dei disabili, una promessa giuridica mancata
Il 29 gennaio 2018 – nel corso del suo 39esimo Summit – l’Unione Africana ha adottato il Protocollo sui diritti delle persone con disabilità addizionale alla Carta Africana dei diritti umani e dei popoli (da ora in poi Protocollo).
Da più parti, l’approvazione del Protocollo è stata subito considerata come una svolta storica per gli 80 milioni di disabili africani. Questi infatti, per la prima volta, avrebbero disposto di uno strumento giuridico teso a tutelare i loro diritti sulla base della specifica realtà continentale.
La stessa Catalina Devandas, Relatore Speciale ONU per i diritti delle persone con disabilità, aveva accolto con plauso il documento, dichiarando: “ci saranno notevoli miglioramenti nella vita delle persone africane con disabilità. Il Protocollo affronta alcune questioni urgenti, che coinvolgono i disabili in maniera più sproporzionata rispetto ad altri individui. Tra queste: povertà, discriminazione sistemica, pratiche tradizionali dannose”.
Ma non è tutto oro quello che luccica.
In Africa, infatti, sulla carta si fanno oggi forse le cose più interessanti in materia di diritti umani. In pratica però quasi niente viene davvero realizzato o concretizzato come ideato. Le ragioni sono molteplici e vanno ricercate nella mancanza di risorse economiche, negli interventi legislativi nazionali insufficienti ovvero lacunosi, nella debolezza di diversi sistemi statali, nelle politiche sociali poco sviluppate, nei tanti conflitti in essere che pongono inevitabilmente altre priorità.
Il Protocollo non fa purtroppo eccezione. Invero quasi tre anni dopo la sua adozione più che una conquista appare una promessa mancata. Basti pensare che tuttora non è ancora entrato in vigore. Gli Stati quindi non sono al momento tenuti a rispettare gli obblighi in esso contenuti.
L’esistenza dei disabili africani continua a essere costellata da discriminazioni. Non a caso, vengono spesso esclusi dal mondo dell’istruzione e del lavoro. Viene loro impedito di vivere dove e come vogliono, di crearsi una famiglia, di muoversi liberamente all’interno delle proprie comunità.
Come se questo non bastasse, la cultura dominante in vari Paesi – spesso frutto di ignoranza e mancanza di informazioni corrette – finisce con il rendere i disabili vittime di stigma, violenze, abusi di vario genere. Gli ultimi tra gli ultimi. I più emarginati tra gli emarginati.
Diverse società africane hanno credenze inconcepibili in merito alle cause della disabilità e agli approcci da seguire per trattarla.
Secondo un report dell’African Child Policy Forum (ACPF), in Camerun, Etiopia, Senegal, Uganda, Zambia, l’origine della disabilità neonatale è attribuita alla promiscuità della madre, alle maledizioni ancestrali, alla possessione demoniaca. In Nigeria, invece: ai peccati della famiglia, all’adulterio, alla stregoneria, alle offese compiute dai genitori verso Dio o altri Dei. In altre parole, sin dalla nascita i bambini disabili sono circondati da un alone di pregiudizio che inficerà l’intero corso della loro vita.
In Somalia, i disabili psichici sono sottoposti alla cosiddetta “cura della iena“. Partendo dal presupposto che l’animale in questione sia in grado di vedere tutto compresi gli spiriti maligni (djinn) generanti la malattia mentale, il disabile viene posto per un’intera notte in una capanna con una o più iene, che lo artigliano e mordono per scacciare il “djinn”. Nella maggior parte dei casi, l’unico risultato è la morte dello “sfortunato”.
In alcuni villaggi di Tanzania, Malawi e Burundi si uccidono gli albini per via di una “superstizione”, in base alla quale l’utilizzo di alcune parti del loro corpo “porterà a grandi ricchezze e successo”.
Ancora, nelle zone rurali del Sudafrica è piuttosto diffuso lo “stupro della vergine” perpetrato da individui affetti da HIV/AIDS nei confronti di uomini e donne disabili. La pratica aberrante si fonda su due falsi convincimenti popolari. Il primo: fare sesso con una vergine consente al malato di HIV/AIDS di trasferirle il virus e pertanto guarire. Il secondo: le persone disabili sono inattive sotto il profilo sessuale, quindi sicuramente vergini.
Alla luce di questo disarmante quadro sociale e culturale, potrebbe quasi sembrare un esercizio inutile scrivere di un Protocollo adottato nel 2018 e non ancora vigente. Ma non lo è affatto, poiché ricostruire il lungo percorso che ha portato alla sua redazione serve quantomeno a capire come gli Stati africani abbiano maturato nel corso degli anni una progressiva sensibilità e consapevolezza sul tema della disabilità, sulle problematiche ad essa connesse, sui “bisogni speciali” delle persone disabili, sulla necessità di creare – seppure finora solo sul piano formale – una cornice giuridica volta alla loro protezione.
È vero che molti Stati africani sono parti alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (CRPD), concepita per promuovere, tutelare, assicurare il pieno ed equo godimento dei diritti umani da parte dei disabili. Ma è vero anche che la CRPD è un trattato a vocazione universale. Non è quindi tarata sulle peculiarità del continente africano e sulle sfide quotidiane che i suoi disabili si trovano a dover affrontare.
L’interessamento dell’Africa verso i diritti dei disabili nasce intorno a due traiettorie storiche parallele, che iniziano a prendere forma nel corso degli anni ’80. Da un lato, il graduale riconoscimento da parte della comunità internazionale della disabilità quale “questione di diritti umani”. Dall’altro, la lenta virata dell’allora Organizzazione per l’Unità Africana (OUA) verso un nuovo orientamento più favorevole ai diritti umani, che si concreterà nell’adozione della Carta Africana dei diritti dell’uomo e dei popoli del 1981.
La Carta contiene limitati riferimenti ai disabili, rinvenibili in particolare nell’art. 2 (divieto di discriminazione) e nell’art. 18, par. 4 (misure speciali di protezione per anziani e disabili). Ma costituisce comunque un importante punto di partenza per porre il tema dei loro diritti al centro dell’agenda politica africana, facendolo lentamente penetrare nel sistema giuridico regionale.
Il primo passaggio avviene nel 1985, quando l’OUA approva l’Accordo per la creazione dell’African Rehabilitation Institute (ARI). Si tratta di un Ente che utilizza i servizi e le strutture già esistenti nei vari Paesi africani per sviluppare programmi di formazione e ricerca per la riabilitazione dei disabili.
Cinque anni dopo, viene siglata la Carta africana sui diritti del bambino, all’interno della quale l’OUA inserisce specifiche disposizioni riguardanti i minori disabili. E nella stessa direzione si muoveranno tutti i successivi trattati regionali in materia di diritti umani.
Il 1999 rappresenta un anno cruciale per i disabili africani. La conferenza ministeriale sui diritti umani dell’OUA – tenutasi a Grand Bay nel mese di aprile – con la “Declaration and Plan of Action” invita tutti gli Stati ad agire per garantire il godimento dei diritti fondamentali anche alle persone con disabilità. Mentre, i capi di Stato e di Governo dell’OUA – nel mese di luglio – proclamano il periodo 1999-2009 “African Decade for Persons with Disabilities“.
L’idea di un trattato incentrato in via esclusiva sui diritti dei disabili comincia a germogliare nel 2003, durante la prima conferenza ministeriale sui diritti umani della neonata Unione Africana (UA). Nel corso del meeting, i leader africani si trovano concordi nel riconoscere l’esistenza di diffuse violazioni dei diritti “dei gruppi più vulnerabili, compresi i disabili” nonché la necessità di dar vita a “un protocollo sulla protezione degli anziani e delle persone con disabilità”.
Nel 2009, dopo l’entrata in vigore della CRPD – alla cui redazione aveva partecipato un’entusiasta delegazione di Stati africani – l’UA estende per ulteriori dieci anni (2010-2019) l'”African Decade for Persons with Disabilities“. E istituisce un Working Group proprio con il compito di elaborare un atto giuridico per la tutela delle persone anziane e di quelle con disabilità.
Il Working Group predispone due distinti documenti: uno relativo agli anziani; l’altro ai disabili. Quest’ultimo, meglio noto come “Bozza di Accra” – dal nome della capitale ghanese nella quale si erano svolte le riunioni del gruppo di esperti – si rivela però un fallimento in ragione del suo contenuto inadeguato.
Il documento non considera, invero, alcuni concetti essenziali introdotti dalla CRPD, in particolare quello di “ragionevole accomodamento“. Non presenta una prospettiva specifica per l’Africa. E viene, fra l’altro, sommerso da una pioggia di critiche dalle associazioni a tutela dei disabili, escluse dal suo processo di creazione, che affermano con forza il principio “niente su di noi, senza di noi“.
I lavori preparatori del Working Group riprendono nel 2012, a seguito della nomina di 3 esperti in materia di disabilità quali membri del Gruppo stesso. Due anni dopo, la bozza di Protocollo viene aperta ai commenti di tutti i soggetti interessati, ivi compresi gli attori della società civile. Nel 2016, la Commissione africana sui diritti umani e dei popoli approva la bozza definitiva che – come detto in apertura – viene adottata dall’UA nel 2018.
Il Protocollo ricalca la CRPD quanto a oggetto e scopo. Allo stesso modo della Convenzione ONU non crea nuovi diritti, ma “promuove il pieno ed equo godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali da parte delle persone disabili”, identificando “gli adattamenti necessari affinché ciò avvenga”.
Diversamente dalla CRPD, interviene però a disciplinare alcune fattispecie proprie del contesto africano, determinanti forme di discriminazione culturale e intersezionale. L’art. 11 si occupa, infatti, di tutte quelle “pratiche dannose” pregiudicanti i diritti dei disabili, in particolare: “stregoneria, abbandono, occultamento, uccisioni rituali, associazione tra disabilità e cattivi presagi”. Mentre, gli artt. 27, 28, 29, 30, sono indirizzati alla peculiare tutela rispettivamente di: donne, bambini, adolescenti e anziani disabili.
Al netto di alcune lacune – rintracciabili nell’assenza di disposizioni sull’albinismo, sull’HIV/AIDS, sullo stile di vita di certe comunità – il Protocollo, qualora entrasse in vigore, potrebbe senz’altro rappresentare un valido strumento per la realizzazione e la difesa dei diritti dei disabili africani.
La mera presa di coscienza da parte del Continente circa le “difficoltà” che le persone con disabilità vivono e la sua trasposizione sulla carta, non costituiscono infatti una condizione sufficiente perché questi fruiscano in modo concreto ed effettivo dei loro diritti e delle loro libertà fondamenti. Anzi è solo una contraddizione in termini, nella misura in cui appare davvero assurdo che l’Unione Africana abbia lavorato per circa un ventennio a un trattato regionale lasciato poi dagli Stati lettera morta.
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