Assistenza ai disabili, un panorama di criticità e discriminazioni

Foto dell’utente Pexel Alexandre Saraiva – Licenza CC

Per realizzare la piena integrazione delle persone disabili di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nell’ambito della vita familiare e sociale, nonché nei percorsi dell’istruzione scolastica o professionale e del lavoro, i Comuni, d’intesa con le aziende Unità Sanitarie Locali, predispongono, su richiesta dell’interessato, un progetto individuale, secondo quanto stabilito al comma 2.

L’art. 14, comma 1, della L. 328/2000 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali), ha introdotto nell’ambito dell’ordinamento giuridico italiano il cosiddetto “Progetto individuale per la persona disabile“.

Il “Progetto individuale” è stato concepito dal legislatore come uno strumento di ampio respiro volto a consentire la piena integrazione scolastica, lavorativa, sociale e familiare della persona con disabilità.

Esso comprende: la valutazione diagnostico-funzionale; le prestazioni di cura e di riabilitazione a carico del Servizio Sanitario Nazionale; i servizi alla persona erogati dal Comune in forma diretta o accreditata; le misure economiche necessarie per il superamento di condizioni di povertà ed emarginazione.

L’ottica seguita è stata quella di mettere la “persona al centro”, così da renderla non solo oggetto di prestazioni ma altresì soggetto in grado di compiere scelte sul suo processo di inclusione, tenendo ovviamente conto di quello che è lo specifico quadro clinico e comportamentale.

Si tratta quindi – come precisato dal TAR Catanzaro nella sentenza n. 440/2013 – di un “modello di servizi incentrato sulla ‘presa in carico globale’ della persona disabile, che (…) intende garantire all’utente quel ‘supplemento di garanzie'” finalizzato a ridurre gli svantaggi strutturali nonché ad assicurare la sua piena e pari partecipazione a tutti gli aspetti della vita e dello sviluppo sociale ed economico all’interno della società.

In altre parole, la presa in carico del disabile non consiste solo nel mero riconoscimento “di determinate cure, servizi, agevolazioni, provvidenze (…) ma diventa a tutti gli effetti una questione di diritti umani“, intesa in termini di rimozione delle discriminazioni nonché di godimento di pari opportunità, come poi sancito dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità del 2008.

La Legge 328/2000 non si applica in via esclusiva ai cittadini italiani ma altresì agli stranieri in possesso di un permesso di soggiorno non inferiore ad un anno, inclusi i minori iscritti nella loro carta di soggiorno.

Questo significa che a tutti i disabili di origine straniera soggiornanti per un periodo di almeno anno sul nostro territorio sono riconosciuti per legge i medesimi diritti attribuiti ai disabili italiani, compresa la fruizione del “Progetto individuale”. Restano, invece, esclusi, gli stranieri titolari di permessi per lavoro stagionale, i richiedenti asilo e tutti coloro che sono in attesa di primo riconoscimento di permesso a prescindere dal motivo per il quale è stato richiesto.

Fin qui, sembrerebbe filare tutto liscio. Anzi, andrebbe anche sottolineato come l’Italia ancor prima della comunità internazionale abbia abbandonato il modello medico di trattamento della disabilità, abbracciando l’approccio “bio-psico-sociale”, che punta alla piena inclusione del disabile attraverso la concreta valorizzazione della sua “diversità”.

La realtà è però ben diversa. Le istituzioni pubbliche italiane – 20 anni dopo l’entrata in vigore della Legge – hanno ancora enormi difficoltà tanto nella predisposizione che nell’attuazione dei progetti individuali.

One Global Voice ha intervistato Vincenzo Falabella – presidente della Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap (Fish Onlus) – per  meglio capire qual è l’attuale situazione generale nel Paese, focalizzando l’attenzione sui disabili di origine straniera. Questi, proprio in ragione della duplice dimensione di “diversità” che vivono, sono infatti suscettibili di andare incontro a maggiori disuguaglianze e disparità di trattamento.

Il TAR Valle d’Aosta nella sentenza n. 2/2019 ha rilevato che “nel nostro ordinamento sussiste il problema di come dare concreta ed effettiva applicazione al diritto alla salute della persona e ai diritti all’assistenza dei disabili in ragione dei limiti che l’Amministrazione (e prima ancora il legislatore) incontra in relazione alle esigenze organizzative e alle risorse finanziarie disponibili”. Può spiegarci quali sono queste criticità organizzative?

Non occorreva scomodare il TAR della Valle d’Aosta per rilevare una realtà vissuta quotidianamente nel nostro Paese da migliaia di cittadini italiani e stranieri, che hanno necessità, da un lato, di servizi di supporto alla loro condizione sociale e sanitaria, dall’altro, di politiche inclusive ovvero di orientamenti che non sospingano le persone verso il perenne assistenzialismo, l’isolamento, l’emarginazione.

Prima delle scelte organizzative vi è sicuramente il vulnus delle risorse limitate e insufficienti per garantire il rispetto e l’esigibilità dei diritti costituzionali. E su questo ci piace citare uno stralcio della sentenza della Corte Costituzionale 152/2020 del 23 giugno scorso, depositata qualche giorno fa.

La Corte sancisce come l’importo della pensione agli invalidi civili non risponda ai principi di tutela espressi dalla Costituzione. Sul punto che qui ci interessa, viene evidenziato: “Questa Corte ha già avuto del resto modo di chiarire che le scelte allocative di bilancio proposte dal Governo e fatte proprie dal Parlamento, pur presentando natura altamente discrezionale entro il limite dell’equilibrio di bilancio, vedono naturalmente ridotto tale perimetro di discrezionalità dalla garanzia delle spese costituzionalmente necessarie, inerenti all’erogazione di prestazioni sociali incomprimibili (ex plurimis, sentenze n. 62 del 2020, n. 275 e n. 10 del 2016)”. In parole semplici, questo significa che quando sono in gioco i diritti costituzionali non possono essere invocati gli equilibri di bilancio.

La riforma del Titolo V della Costituzione, come noto, ha comportato una diversa ripartizione delle competenze legislative tra Stato e Regioni in varie materie, tra cui quella socio-sanitaria. Tale cambiamento che tipo di ripercussioni ha avuto rispetto alla realizzazione della presa in carico della persona disabile e all’elaborazione di politiche sociali efficaci?

La riforma del Titolo V della Costituzione ha nella sostanza svuotato il larga misura i contenuti della legge 328/2000. Una rapida digressione: a distanza di due decenni dalla sua entrata in vigore, quella norma necessiterebbe comunque di una profonda rivisitazione anche sul concetto di “presa in carico” e sulla definizione di “progetto individuale”. Entrambi assai poco in linea con il mutamento culturale intervenuto e con i principi della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità.

Ma tornando al Titolo V e in particolare all’articolo 117, sull’assistenza sociale c’è una lacuna profonda che non è certo attribuibile a quella riforma. Infatti, mancano i livelli essenziali di assistenza sociale. A fatica, nel gennaio 2017, sono stati approvati i LEA sanitari e sociosanitari, ancora in parte inattuati, con notevoli discussioni ancora una volta sulle risorse: le devono mettere le Regioni o le deve trasferire lo Stato?

La “presa in carico” (espressione che non apprezziamo) passa soprattutto per l’assenza di LEA, di LIVEAS, di LEPS compiutamente definiti e congruamente finanziati. Il resto è una carta della penisola a macchie disomogenee. Ma questo è altro tema di disparità: essere persona con disabilità al Nord o al Sud è condizione spesso diversa.

Soffermandoci sui disabili di origine straniera, in base alla sua esperienza, quali sono le principali difficoltà che incontrano nel percorso di riabilitazione e di inserimento sociale in Italia?

Qui si tocca un tasto su cui il nostro movimento è molto sensibile, quello della discriminazione plurima: essere latori di più elementi oggetto di discriminazione. Come donne e come disabili, come anziani e come disabili,  come persona LGBT e come disabili. E appunto come stranieri e come disabili. Anche fra gli stranieri che vivono condizioni con disabilità ci sono situazioni assai diverse a seconda dell’età, della provenienza (UE, Europa, Africa, Asia, ecc…), il grado di istruzione, le competenze professionali spendibili, il genere.

Il principale ostacolo che incontrano le persone straniere più fragili è proprio quello di accesso ai servizi sanitari (che esulino dal pronto soccorso) e riabilitativi. Esso è infatti connesso allo status, al possesso di documentazione e di riconoscimenti che spesso, troppo spesso, non seguono affatto i tempi della salute.

Questo gap è ancora più significativo per l’accesso ai servizi sociali. Alcuni sostegni economici per invalidità sono stati riformati solo grazie ad una lunga serie di sentenze – ancora una volta – della Corte Costituzionale, che ha colmato una latitanza del legislatore.

In che modo i servizi socio-sanitari accolgono e sostengono un disabile di origine straniera?

Come già accennato siamo di fronte a situazioni diversissime fra stranieri a seconda delle loro condizioni pregresse. Ma pensiamo qui a più fragili, quelli con meno strumenti culturali, linguistici, economici e spesso senza riconoscimento di status di rifugiato o con un riconoscimento molto debole. Bene, per questi è già molto se ai servizi ci arrivano. Quando ci riescono è dovuto al ruolo e all’impegno di organizzazioni no profit, di volontari, di mediatori.

In prevalenza, i servizi  socio-sanitari non sono preparati ad accogliere migranti con quel profilo. Quando ciò accade è spesso dovuto a “buona volontà” dei singoli più che a scelte di sistema e quindi politiche. Questo però è il Paese che quando ha deciso di (tentare di) contrastare fenomeni di impoverimento, ad esempio con il reddito di cittadinanza, ha escluso gli stranieri non residenti in Italia da un buon numero di anni.

Vengono svolte, a livello territoriale, azioni e campagne per informare il disabile straniero dei suoi diritti e della possibilità di accedere – previa sua richiesta – al Progetto individuale?

Da quanto ci risulta le poche campagne informative sono svolte dalle organizzazioni di volontariato. Riguardano in generale i diritti sociali e opportunità più basilari rispetto al “Progetto individuale”. Un esempio? Come richiedere il riconoscimento dell’invalidità civile e dell’handicap, giacché senza quel “titolo” non si accede a nessun intervento o servizio, neppure scolastico. Ottenere quel riconoscimento di status è già complesso per un italiano, figuriamoci per uno straniero.

Di fronte ai bisogni emergenti di un nuovo target di utenza caratterizzato da una duplice dimensione di “diversità”, in che modo si orientano e lavorano gli operatori socio-sanitari e scolastici?

La ringrazio perché la formulazione della sua domanda ci consente di contestare la convinzione che questi dei migranti siano bisogni emergenti e che quelle persone siano un nuovo target. Sono scelte semantiche che possono finire per essere assolutorie di evidenti latitanze, che creano e mantengono le diseguaglianze.

No, non sono bisogni emergenti: sono già emersi e trabordati. Ciò è evidente a chiunque lavori nel sociale, nelle strade, nelle periferie. E non è un “nuovo” target: è ben definito da almeno 20 anni anche se certa politica, nazionale e regionale, ha preferito nasconderlo sotto il tappeto o peggio.

Come possono efficacemente intervenire gli operatori in questo brodo di coltura? Pensiamo alla scuola. Per accedere al sostegno una ragazzino con disabilità deve avere seguito un percorso di riconoscimento, di diagnosi, di progettazione. È già difficile con il suo coetaneo italiano.

Quando vi sono elementi differenti culturali, di provenienza, di diagnosi incerta, diviene ancora più complesso e chi deve operare, troppo di sovente, non può nemmeno contare sulle necessarie expertise, mediazioni, supporti. C’è ancora moltissimo da fare, ma crediamo che a monte vi sia pregiudizio e immobilismo che non sarà facile scalzare.

Ad oggi, non esistono studi specifici sui disabili stranieri, migranti o figli di migranti, presenti nel nostro Paese. Non è quindi facile ricostruire la portata del fenomeno e le sue caratteristiche. La vostra Associazione ha comunque condotto delle ricerche. Può descriverci, in ragione dei risultati finora ottenuti, quali sono le effettive condizioni di vita di queste persone?

Sulla condizione delle persone migranti con disabilità abbiamo condotto una ricerca nel 2016 grazie anche a collaborazioni con varie organizzazioni, che se ne occupano direttamente. È stata un’occasione per incontrarci, per condividere esperienze da due angoli prospettici differenti. E ricomporre così il quadro di una discriminazione che è plurima.

In queste settimane stiamo conducendo un ulteriore progetto sulla discriminazione, che “non si somma ma si moltiplica”. E uno dei focus è ancora una volta quello del migrante con disabilità. Ciò che ho espresso in questa intervista rispetto alle condizioni delle persone migranti con disabilità nasce sia da quelle esperienze di ricerca, sia dalle quotidiane attività a favore e a supporto diretto anche di queste famiglie e individui, che vivono accanto a noi ma spesso nell’ombra e ancora più sovente nel disagio.

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