Membro della World Federation of Music Therapy, Nsamu Moonga è uno psicoterapeuta e musicoterapeuta che vive e lavora a Boksburg, in Sudafrica.
La sua concezione di musicoterapia potrebbe essere inclusa in una prospettiva decoloniale che trova le radici nelle pratiche di guarigione comunitarie e tradizionali. Il modo in cui Moonga intende la terapia e il tipo di lavoro che attua con i pazienti è influenzato dalle sue origini e dalla relazione familiare che ha con la musica.
La riconnessione con la primordialità della relazione umana con i suoni e con la voce, potrebbe essere uno strumento importante per diversi percorsi sociali legati alla salute mentale e alla riconciliazione, e un modo per re-imparare ad ascoltare intensamente – gli altri e il mondo. Nsamu Moonga è testimone diretto di questa possibilità.
Ci ha ricordato l’antico potere delle arti per la salute e il benessere della comunità umana.
Quale definizione daresti alla musicoterapia?
Ufficialmente, la musicoterapia si definisce come l’utilizzo clinico della musica da parte di un terapeuta, all’interno di una relazione terapeutica e con l’obiettivo di aiutare i pazienti ad incontrare e percepire gli scopi legati alla musica e quelli invece ad essa non relativi. Tali scopi possono essere fisiologici, psicologici, emotivi e spirituali. Come psicoterapeuta, sono interessato all’uso della musica per aiutare i pazienti a relazionarsi con i propri obiettivi ad un livello psicologico.
Non mi sento di poter definire in cosa consiste la musicoterapia perché ci sono svariati modi con cui i terapeuti scelgono di lavorare. Posso invece esprimermi sulla relazione tra la musica e la terapia e di come essa si sviluppa, attraverso processi di comprensione, giudizio, scambio, conclusione e valutazione. Durante tali processi, il terapeuta collabora con il paziente per definire cosa va bene e cosa non va bene. L’attenzione sensibile è l’elemento caratteristico di una relazione terapeutica.
Cosa rappresenta per te la musicoterapia?
Vorrei sottolineare un altro aspetto della musicoterapia, legato alla mia provenienza africana. L’Africa è un continente dove la musica, il teatro musicale e i rituali musicali di guarigione, sono onnipresenti. Da bambino ho testimoniato e preso parte di molti rituali musicali di guarigione che duravano anche più giorni. La comunità si riuniva per supportare e partecipare al percorso di cura di persone malate. Esito a chiamare questi tipi di rituali pratiche di “musicoterapia” perché non intendo confliggere con la concezione legale e professionale della musicoterapia come pratica controllata e formalizzata. Nella mia esperienza e ricerca, ho constatato che sia chi pratica direttamente tali rituali di guarigione attraverso la musica e sia chi ne prende parte – cioè le comunità – confermano la possibilità della musica tradizionale/tribale di alleviare dolore, conflitti e afflizione. Mi piace pensare che la musicoterapia come la conosciamo attualmente, derivi da questi primordiali e antichi rituali di guarigione in cui la musica è lo strumento principale.
Come e perché ti sei interessato alla musicoterapia?
Come ho detto, sono cresciuto testimoniando e partecipando a rituali di guarigione attraverso la musica e il teatro. Nel mio quartiere, avevamo guaritori che presiedevano i rituali. Suonavano tamburi, chitarre, marimba e altri strumenti, durante le notti in cui eseguivano le cerimonie. Sono stato iniziato molto presto sia alla musica sia alla terapia. A questo si deve aggiungere l’influenza di mia madre, che era una cantante. Ho sempre cantato. Cantavamo insieme praticamente tutte le sere. Sono cresciuto pensando ingenuamente che tutte le persone sapessero cantare, fino a quando ne ho incontrata una che invece non aveva lo stesso mio rapporto con la voce. Al di là dei rituali tradizionali di guarigione a cui ero abituato, ho esperito successivamente la musica in un contesto di “cura”, quando ho lavorato con bambini e giovani a rischio. Ero volontario in una comunità dove usavamo la musica per sensibilizzare le persone e per dare ai giovani una voce per reclamare i propri diritti. Questa esperienza è stata cruciale per il mio percorso. Ho capito in quel periodo che volevo fare qualcosa in cui c’entrasse la musica. Non avevo ancora in mente quale forma avrebbe poi preso questo desiderio fino a quando non ho cominciato a frequentare una scuola di musica. Ho cominciato a pensare come questa fosse importante nei percorsi di cura. Ho iniziato uno studio approfondito del ruolo della musica nei rituali di guarigione tradizionali. Ciò ha permesso che mi incuriosissi sempre di più. Oltre agli studi musicali, mi stavo formando come psicologo in una clinica per persone con HIV e AIDS e seguivo corsi di psicoterapia. Arrivò poi il momento di unire le mie due passioni e così ho scoperto la musicoterapia. Spesso penso che la musicoterapia abbia sempre fatto parte di me, come se mi avesse scelto e seguito prima che io effettivamente decidessi.
Dove (in quali contesti) pratichi come musicoterapeuta?
La musicoterapia può essere applicata in molteplici settori, come gli ospedali psichiatrici, le scuole, gli ospedali pubblici, l’educazione particolare, le unità di trauma e riconciliazione comunitaria. Gli ambiti della musicoterapia sono infiniti. Ogni musicoterapeuta lavora dove si sente più a suo agio. Attualmente, lavoro in un centro per lo sviluppo di bambini e adolescenti. Lavoro con giovani a rischio e con giovani che hanno subito abusi sessuali, fisici e psicologici o che hanno abusato altre persone. Lavoro anche nelle scuole per fornire prevenzione psicologica e supporto emotivo. Nelle scuole lavoro anche per dare supporto allo staff, non solo agli alunni.
Lavoro privatamente (singolarmente) con persone che hanno attraversato o stanno vivendo situazioni difficili e particolari, come lutti, blocco dello sviluppo, dipendenze, e bisogni generali. Ho lavorato in un reparto pediatrico di oncologia, in una clinica di riabilitazione da dipendenze, insieme a bambini con disordini di tipo autistico e con persone anziane con demenza senile.
In quale scuola di musicoterapia ti sei formato?
Mi sono formato all’Università di Pretoria, con le dottoresse Carol Lotter e Andeline Dos Santos.
Quali sono le tue esperienze come musicoterapeuta?
Credo che la mia sia una vera vocazione. Ho iniziato questa professione tardi, ma credo che per me questo sia un vantaggio. Tutte le deviazioni e le distrazioni precedenti sembrano oggi avere un senso e incidono sul lavoro che svolgo. Ho conosciuto persone meravigliose all’interno della comunità dell’arte-terapia. E penso che il mio lavoro venga riconosciuto anche nella comunità mondiale. Tralasciando comunque la musicoterapia in sé, è tutto ciò che sta dietro ad essa che mi emoziona.
Lavorare con persone sia nei contesti clinici che in quelli comunitari, è davvero significativo per me. Mi piace l’idea di essere attivamente e sensibilmente presente con il paziente. Mi piace intraprendere questo “viaggio” con le persone. Quando dico che mi piace e che mi diverto, non intendo che sia facile. La terapia è un lavoro duro, per entrambi – il terapeuta e l’assistito. Penso anche che qualcosa nella relazione terapeutica mi dia la possibilità di riconoscere miei bisogni, che devo incontrare nella vita. La “relazione simbiotica” che si instaura tra terapeuta e paziente, anche se discutibile, è arricchente.
Come avviene una sessione di musicoterapia?
Questa è una domanda molto difficile, perché ogni sessione è unica. Non c’è un modo predeterminato di relazionarsi coi pazienti, ognuno ha le proprie storie e i propri bisogni. Lavoro attraverso un paradigma orientato verso di loro. Nella maggior parte dei casi lavoro con ciò che il paziente porta in aula: non posso prevedere come arriverà, cosa porterà di se stesso. La sessione comunque si rifà al processo tipico della seduta terapeutica: dalla comprensione, alla conclusione e alla valutazione. Il meglio che posso testimoniare riguardo alla sessione di musicoterapia, è quando il paziente è un bambino che invito ad una sessione di improvvisazione musicale. Posso chiedergli di suonare un motivo dal ritmo semplice o di seguire una mia melodia. Possiamo ripetere allo stesso modo finché non decidiamo di variare il ritmo, sia estendendo e sia variando il tempo o il volume. La sessione può essere una combinazione di scambio musicale, utile allo sviluppo della relazione tra il paziente e il terapeuta. Io ritengo che l’incontro tra le persone nello spazio creato dalla musica, sia speciale.
Trovi che sia difficile portare l’arte nel settore della psicoterapia?
Le arti musicali hanno potenziato e incrementato il mio lavoro come psicoterapeuta, per questo non credo sia difficile incorporare le arti alla psicoterapia. L’arte mi ha offerto un nuovo punto di vista sull’animo umano. Grazie al fatto che l’arte non risulta invasiva, le persone tendono a superare prima l’imbarazzo iniziale rispetto ad una situazione in cui si parla solamente. Le arti sono accessibili alla maggior parte della gente. Penso che particolarmente la musica riduca il desiderio del terapeuta di interpretare la personalità del paziente. Le risposte agli stimoli sono rivolte alla musica – nella modalità attraverso la quale si svolge – rispetto che all’incoraggiamento del terapeuta. Lavorare attraverso l’arte mi permette di essere presente per il paziente invece che preoccuparmi di cosa dirgli. Certamente, posso riflettere con lui su come accrescere la sua consapevolezza, permettendo che possa significare la sua esperienza attraverso le parole.
Quali sono le reazioni e le risposte alla pratica di musicoterapia da parte delle istituzioni sanitarie?
In Sudafrica la musicoterapia è una pratica professionale registrata durante il Concilio sudafricano delle professioni sanitarie (HPCSA). Ciò suggerisce che, teoricamente, la musicoterapia è benvoluta dalle istituzioni sanitarie. Le sfide e le difficoltà riguardano la mancanza di offerte di lavoro nel settore pubblico e le preferenze di chi dirige tali istituzioni. Stiamo facendo dei progressi nella tutela e diffusione della musicoterapia nel Paese. Stiamo lavorando anche sull’espandere la discussione negli altri Paesi del continente. So ad esempio che in Ghana la musicoterapia è riconosciuta come una professione autorizzata.
Come “reagiscono” invece i tuoi pazienti?
Per me è molto complicato definire generalmente come rispondono i pazienti alla musicoterapia, eccetto se si parla di quanto la musica faciliti lo sviluppo della relazione terapeutica e dei cambiamenti osservabili dai loro stessi atteggiamenti. Ho avuto esperienze in cui l’umore del paziente è drasticamente cambiato dopo un’improvvisazione di percussioni. Un altro invece, alla fine di una seduta di improvvisazione, ha esclamato: “non mi sentivo così da molto tempo“. I pazienti rispondono alla musica in modo differente, sia che si tratti di musica improvvisata o di composizioni o di musica pre-registrata. Penso che sia la specificità della persona che guidi l’arte(terapia) stessa. Mentre il terapeuta può affidarsi alle tecniche, nella musicoterapia è vitale la totale apertura verso il paziente e lasciare che la musica faccia il suo corso.
Quanti musicoterapeuti africani conosci? Lavorate insieme?
Stiamo cercando di raccogliere un insieme di dati riferiti ai musicoterapeuti nel continente. C’è una mancanza di dati per quanto riguarda i praticanti. So per esempio che un musicoterapeuta sta praticando in Chad. C’è un musicoterapeuta professionista in Ghana, e circa quattro in Nigeria. In Sudafrica invece ce ne sono più o meno un centinaio. Stiamo cercando di capire quali sono i bisogni dei terapeuti per ciò che riguarda la formazione. Recentemente abbiamo cominciato a fare rete. Questi incontri permettono di mettere insieme musicoterapeuti e i musicisti delle comunità dei diversi Paesi del continente africano. Sono entusiasta rispetto a ciò che sta emergendo. Stiamo pensando a rendere più accessibile e culturalmente sensibile la formazione. Questo lavoro per noi è molto importante. Sappiamo qual è il ruolo della musica nella vita delle persone africane. Come tali, partiamo da una posizione privilegiata per valorizzare il potere curativo del teatro e della musica, attraverso la specificità africana.
Possiamo considerare quindi la musicoterapia diffusa e popolare in Africa?
Dobbiamo cercare di superare la definizione professionale di musicoterapia, per poter apprezzare profondamente l’entità dei processi e rituali di cura attraverso la musica in Africa. Dovremmo aprire un dibattito troppo grande rispetto al ruolo che il colonialismo culturale occidentale ha avuto sulla definizione corrente che si dà alla musicoterapia. Tuttavia, considerare la musicoterapia come professione diffusa, è difficile, soprattutto se si pensa che nella maggior parte dei Paesi africani non esiste.
Percepisci sostanziali differenze tra la musicoterapia in Sudafrica e all’estero (in Africa e nel resto del mondo)?
Non sono a conoscenza delle differenze pratiche che potrebbero esserci tra i vari Paesi. Intuisco solamente che possano esserci differenze concettuali ed estetiche rispetto alla musica e ai rituali musicali di cura. E, come ho già menzionato, rispetto alla distinzione netta tra musicoterapia e rituali di guarigione attraverso la musica. Credo che ci sia ancora molto lavoro da fare per arrivare ad un apprezzamento sinergetico della musicoterapia che includa e riprenda i sistemi di conoscenza indigena. Il nostro lavoro implica anche un’agenda di decolonizzazione della ricerca, della pratica e della teoria clinica. Come derivato dai rituali musicali di guarigione, la musicoterapia nella sua accezione occidentale dovrebbe essere ridimensionata. Quelli che di noi hanno credenziali e formazione accademica, dovrebbero restare modesti e umili, consapevolizzando i privilegi che ciò concerne. Capita a volte che mi soffermi a pensare a quanto la musicoterapia (professionale) rispecchi il modello medico e clinico occidentale, e di quanto quindi il suo concetto (e la sua pratica) possa risultare coloniale. Appropriarsi della conoscenza tradizionale e riformularla per incontrare la domanda accademica, relegando quindi i saperi indigeni a qualcosa di non-esperto, non-riconosciuto, ha qualcosa di problematico.
Oltre ad essere membro della World Federation of Music Therapy, sei il referente per la regione africana. Perché hai scelto di unirti alla federazione?
Viviamo in tempi in cui il mondo è sempre più collegato. Penso sia facilmente riconoscibile che globalmente ci si muova verso la cooperazione. Personalmente credo che troveremo soluzioni ai maggiori problemi mondiali solamente se lavoreremo insieme. La World Federation of Music Therapy è una piattaforma per condividere le idee migliori da tutto il mondo. Mi piace l’idea che attraverso la mia voce stia contribuendo allo sviluppo e incremento della musicoterapia nel mondo. Per me è essenziale condividere le conoscenze nate dalla sensibilità e dall’esperienza africana. Come detto in precedenza, stiamo discutendo per l’espansione della concenzione di musicoterapia, includendo quei concetti che solitamente non sono riconosciuti dai canoni accademici. Vorrei occuparmi delle ricerche da una prospettiva autoctona africana. Non abbiamo molti musicoterapeuti provenienti dall’Africa e io sento che i guaritori sangoma / n’ganga reclamano il riconoscimento delle radici culturali indigene presenti nella pratica della musicoterapia.
Tra gli obiettivi della World Federation of Music Therapy c’è la promozione della musicoterapia nel mondo come arte, come scienza, e come uno strumento educativo per incentivare giustizia sociale e risoluzioni pacifiche. Cosa ne pensi?
Sostengo che la federazione abbia nobili aspirazioni. Questo è ciò che intendo quando parlo di gruppi di persone che si uniscono per imparare e crescere, nell’intento di ascolto reciproco. Imparare è sia un’arte che una scienza. Con l’approccio scientifico, che privilegia la sperimentazione, possiamo potenziare le nostre capacità anedottiche – riferite quindi all’osservazione. Possiamo unirle all’intelligenza intuitiva ed estetica e alle conoscenze che scaturiscono da essa, valorizzate invece dall’arte. Imparare l’ascolto reciproco è un modo per “praticare” giustizia. In un mondo in cui alcune voci sono state deliberatamente e sistematicamente silenziate, l’ascolto è un atto rivoluzionario, soprattutto quando si ascoltano voci che ci inquietano. Ancora troppe voci nel mondo hanno bisogno di essere ascoltate. Se potessimo usare la musica come metafora, dovremmo cercare di creare uno spazio in cui le voci prima zittite, possano cantare l’opera. La musicoterapia è un contesto in cui si ha l’opportunità di poter ascoltare tali voci. Associazioni come la World Federation of Music Therapy sono mezzi attraverso i quali possiamo parlarci, con coraggio.
Indubbiamente, la musica ha a che fare con la cultura. Che tipo di musica suoni durante le sessioni di musicoterapia? È musica tradizionale africana? Quali strumenti utilizzi?
La musica in effetti è una forma culturale. Tuttavia con la musicoterapia lavoriamo a tentativi, attraverso la musica. Non posso prevedere quale tipo di musica preferiscano i miei pazienti. Mi ritengo ancora troppo inesperto per poter suppore quale tipo di musica io riesca a portare nello spazio terapeutico. Lavoro con la musica nella forma in cui emerge dalla relazione, in qualunque tipo di modo possa definirsi. Per prima cosa, durante le sessioni uso la mia voce. Come cantante, posso “manipolare” la mia voce con facilità. Posso accompagnare la voce con strumenti come batterie, chitarre, tastiere e diversi tipi di percussioni.
Possiamo considerare la musicoterapia come un modo per connettersi con le proprie radici culturali? Pensi che questo tipo di contatto con la tradizione e la cultura possa avere benefici a livello psicologico?
Se volessi esplorare questioni che hanno a che fare con l’identità e la cultura dei pazienti, sicuramente questo tipo di approccio sarebbe utile. Vorrei sottolineare che in terapia, lavoriamo coi bisogni di chi assistiamo. Potrebbe davvero attrarmi l’esplorazione delle questioni culturali attraverso le terapie, ma dipende dal paziente, non posso permettermi di forzare nessuno.
Pensi che la musicoterapia possa essere una modo per attuare un dialogo positivo tra diverse culture e tradizioni?
Penso di dover distinguere tra la musicoterapia – che è una modalità particolare di lavorare con un paziente – e le competenze relative alla musicoterapia. Nel contesto clinico, la musicoterapia ha definito modalità abbastanza precise per lavorare con i pazienti.
Se la domanda si riferisce alla possibilità di applicare le competenze della musicoterapia nel dialogo interculturale, risponderei sì, perché tali competenze e dinamiche possono essere usate in diversi contesti – dialogo interculturale, organizzazione di comunità, eccetera. Ho lavorato nella mia comunità utilizzando competenze acquisite come musicoterapeuta. Conosco terapeuti che lavorano in spazi di dialogo interculturale. Le competenze imparate tramite la pratica musicale e terapeutica sono totalmente “trasferibili”.
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