“Anche noi abbiamo desideri sessuali”. “I disabili sono persone sessuate con esigenze sessuali“. “Prima di tutto, siamo esseri umani. Sogniamo una famiglia, dei figli“. “Ho subito una violenza sessuale. Ma la mia testimonianza è del tutto inutile. Il colpevole sa benissimo che non gli succederà nulla“.
Le voci raccolte, nel 2019, dall’UNEP(United Nations Population Fund), in occasione della Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità, sintetizzano in maniera inequivocabile le sfide che quotidianamente i disabili devono fronteggiare per riuscire a vivere – al pari di chiunque altro – la propria dimensione intima.
Il mancato godimento dei “diritti sessuali e riproduttivi” da parte delle persone disabili non conosce confini geografici. Da Nord a Sud del mondo, pregiudizi, tabù, discriminazioni continuano infatti a ruotare intorno alla vita affettiva e sessuale di questi individui in un crescendo ostinato di silenzi e ipocrisie. La matrice di un simile atteggiamento è comune ai diversi sistemi sociali e culturali, nella misura in cui trae origine dalla medesima errata percezione del disabile in quanto tale e dalla distorta rappresentazione dei suoi desideri fisici.
In alcune circostanze, il disabile viene considerato un eterno bambino asessuato. Un “angelo innocente”, che deve essere protetto e scoraggiato dall’imparare a scoprire e vivere la propria sessualità sul presupposto che questa non farà mai parte della sua esistenza futura.
In altri, invece, è visto come soggetto ipersessuale, deviato, promiscuo. Questo tipo di mito – secondo la letteratura scientifica – si applica, soprattutto, alle persone con disabilità intellettive. La dimensione sessuale viene loro negata per paura di “svegliare la bestia”.
Infine, il disabile viene da molti ritenuto un “oggetto sessuale”. La sua presunta inferiorità lo rende invero destinatario privilegiato di abusi e molestie. Gli autori delle violenze sono spesso convinti che resteranno impuniti poiché la vittima non sporgerà mai denuncia.
D’altro canto, già nel 2002, l’OMS nel definire la sessualità “un aspetto centrale dell’essere umano comprendente: sesso, genere, identità e ruoli, orientamento sessuale, erotismo, piacere, intimità, riproduzione”, aveva rilevato che “non tutte queste dimensioni sono sempre vissute o espresse“ poiché influenzate da fattori di natura “biologica, psicologica, sociale, economica, politica, culturale, etica, religiosa, spirituale”.
Nel caso dei disabili, stereotipi sociali e falsi paradigmi culturali non sono stati scalfiti neppure dall’evoluzione della normativa internazionale in materia.
A riguardo, è opportuno sottolineare che la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (CRPD) non sancisce espressamente – come del resto tutti i trattati internazionali sui diritti umani – i “diritti sessuali e riproduttivi”, ma li ingloba nel più ampio quadro del diritto alla salute (art. 25), alla famiglia (art. 23), alla protezione da ogni forma di violenza, inclusa quella di genere (art. 16).
La CDPR ricalca l’orientamento prevalente nell’ambito dell’ordinamento giuridico internazionale, secondo cui i diritti sessuali e riproduttivi “abbracciano una serie di diritti umani già sanciti da leggi nazionali, da documenti internazionali, da dichiarazioni di consenso”. Più precisamente, questi includerebbero il diritto di ogni individuo – nella piena libertà da ogni forma di coercizione, discriminazione, violenza – di: “accedere ai servizi di cura e alle informazioni in tema di sessualità; ricevere educazione sessuale; scegliere il partner; decidere se essere (o meno) attivo sessualmente, stabilire se e quando sposarsi o avere bambini; perseguire una vita sessuale soddisfacente, sicura e piacevole“.
Mentre il diritto internazionale progredisce, le società e le legislazioni statali tendono ancora oggi a ostacolare la legittima aspirazione del disabile a una “normale” vita relazionale, intima, sessuale, andando così di fatto a frustrare la sua stessa identità.
Per meglio esplorare il tema della sessualità correlato alla disabilità, One Global Voice ha incontrato la dottoressa Francesca Dorigatti – Pedagogista nei servizi educativi di Anffas Trentino Onlus e Consulente sessuale.
Dottoressa Dorigatti, nonostante l‘Italia abbia ratificato, nel 2009, la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, il legislatore non ha ancora provveduto a un organico adeguamento della normativa. Basti pensare che la Legge 104/92 è incentrata sulla nozione di “persona handicappata”, concetto ormai del tutto superato anche sotto il profilo linguistico. Rispetto alla questione della sessualità quali lacune normative ravvisa nel nostro ordinamento?
Nell’ultimo ventennio, il richiamo forte, chiaro, ineludibile all’eguaglianza delle persone disabili con il resto della popolazione – poi cristallizzato nella Convenzione ONU – è stato recepito anche rispetto alla tematica della sessualità, determinando importanti riflessioni soprattutto nell’ambito delle scienze psico-sociali. Si sono rafforzate altresì le esperienze sul campo proprio per favorire l’affermazione dell’identità sessuale nel pieno rispetto dei diritti umani e dell’adultità. L’educazione affettiva e sessuale è infatti diventata parte integrante di molti progetti promossi dal terzo settore.
La dottrina giuridica e lo stesso legislatore hanno però prestato un’attenzione più limata a tale aspetto. Senz’altro sono stati compiuti alcuni rilevanti progressi (tanto nel diritto penale che civile) in relazione al riconoscimento giuridico della capacità di agire – qui intesa come libertà di autodeterminazione del disabile nella sfera sessuale – grazie all’azione delle stesse persone disabili, delle loro famiglie e di diverse associazioni, che hanno in via progressiva riempito di contenuto concreto lo slogan “nulla su di noi senza di noi”.
Tuttavia siamo lontani dall’effettiva promozione e tutela giuridica del “diritto alla sessualità” del disabile. E le attività in materia di educazione sessuale – più o meno diffuse sul territorio italiano, siano esse di sensibilizzazione, informazione o formazione specifica – non possono da sole ovviare alla mancanza di una cornice legislativa puntuale.
Nel 2014, è stato presentato in Senato il disegno di legge n. 1442 intitolato “Disposizioni in materia di sessualità assistita per persone con disabilità”. L’iniziativa legislativa – ancora in attesa di approvazione – mira a istituire la figura dell'”assistente per la sana sessualità e il benessere psico-fisico dei disabili”. A suo avviso, in che modo il cosiddetto “love giver”– professionalità già presente in Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Svizzera e Austria – potrebbe aiutare il disabile nel soddisfacimento dei suoi bisogni emotivi e sessuali?
Il “love giver”, secondo i canali formativi sviluppatesi in Italia, interviene a dare supporto alle persone con disabilità fisico-motoria e/o psichico/cognitiva affinché queste vivano un’esperienza erotica, sensuale o sessuale.
Tramite l’assistente sessuale, il disabile ha l’opportunità di conoscere il proprio corpo e quello di un’altra persona. Di stimolare desideri e fantasie che, per non creare delusioni o false aspettative, dovrebbero essere confinati nell’immediatezza dei gesti e delle sensazioni.
Un’esperienza di benessere fisico e sessuale, quindi, solo a condizione che la persona con disabilità sia consapevole che non può cercare nell’intimità con il “love giver” il piacere condiviso. Il loro incontro, infatti, non è destinato a trasformarsi in una storia ovvero in un legame di coppia.
Va però tenuto conto che in ogni essere umano, l’essenza dell’affettività e della sessualità si modella attraverso la pratica, la sperimentazione, l’apprendimento, la conoscenza di sé e di altre persone. Tutti processi che risultano più lenti e lunghi per chi ha una disabilità intellettiva. Di conseguenza, diventa fondamentale prendersi cura proprio delle difficoltà di questi individui a intuire e “abitare” un certo tipo di esperienza sessuale.
In altre parole, ritengo che l’intervento del “love giver” costituisca un rischio dal punto di vista educativo. La rappresentazione del solo livello di sensazione fisica e sessuale è suscettibile di lasciare un vuoto di significati e potenzialità espressive nella sfera affettiva del disabile.
Genitori e familiari delle persone con disabilità spesso sono del tutto impreparati ad affrontare argomenti di carattere sessuale. Non hanno gli strumenti per fornire risposte e soluzioni adeguate. Ritiene che le istituzioni dovrebbero prevedere percorsi di supporto anche per loro?
La dimensione affettivo-sessuale non può e non deve esaurirsi in ambito educativo. È essenziale coinvolgere anche il nucleo familiare e i diversi contesti di vita.
Spesso la sessualità irrompe sia nella quotidianità familiare sia all’interno dei servizi educativi, presentandosi come qualcosa di inaspettato. E negli adulti di riferimento attiva vissuti di paura, disagio o senso di inadeguatezza.
L’alleanza educativa con le famiglie costituisce, quindi, un buon punto di partenza per comprendere i “bisogni speciali” del disabile. Per individuare e intraprendere percorsi tesi a favorire il raggiungimento delle migliori condizioni possibili.
Interventi di sostegno e accompagnamento rivolti ai genitori si rendono necessari a fini non solo educativi ma anche informativi. Bisogna, poi, porre sempre la dovuta attenzione ai variegati valori e alle diverse morali familiari per evitare di creare conflitto tra i differenti ambienti frequentati dalle persone con disabilità.
L‘appartenenza di una persona con disabilità a un determinato “gruppo vulnerabile” – ad esempio: migranti, minoranze etniche, donne, individui LGBT – complica ulteriormente la gestione della sua dimensione affettiva e sessuale?
In generale, la cosiddetta discriminazione multipla è sempre passibile di determinare un elevato livello di disagio psicologico, che nel caso del disabile potrebbe risultare più accentuato.
Un ruolo fondamentale, per affrontare e superare uno scenario di questo tipo, è svolto da tutte quelle professionalità chiamate ad accogliere, ascoltare, comprendere, aiutare la persona ad acquisire un buon livello di consapevolezza di sé, integrando risorse e limiti nella costruzione di un’identità più solida.
Un percorso non facile di affermazione di sé, della propria identità sociale nonché sessuale di persona disabile.
Quali sono le principali barriere che ostacolano lo sviluppo sessuale ed emotivo delle persone con disabilità?
L’affettività e la sessualità di per sé non costituiscono un problema per le persone con disabilità. Ma possono essere vissute, invece, come tali da chi deve accogliere, accompagnare ed educare.
La trappola degli stereotipi culturali accanto alla fatica di gestire e narrare i vissuti emotivi, affettivi, sessuali, spesso porta gli operatori del settore a sentirsi impreparati, tanto da vedere solo ostacoli nella progettazione degli interventi miranti a realizzare i processi di maturazione emotiva e sessuale della persona disabile.
Sotto il profilo culturale, va contrastata tanto l’infantilizzazione che la credenza di non capacità del disabile, che finiscono con il confinare l’esercizio della sessualità solo all’igiene personale e alle funzioni corporee.
La crescita affettivo-sessuale poi, di solito avviene attraverso l’accesso a un tipo di educazione “informale”: i noti “sentito dire” o le fonti di comunicazione di massa (televisione, Internet, social). Per i giovani disabili questo tipo di conoscenza è più complessa da raggiungere, anche perché non vengono partecipati desideri, pensieri ed esperienze tra loro e i coetanei normodotati.