[Traduzione di Valentina Gruarin dell’articolo originale pubblicato su The New Times]
Ad agosto 2020, la trentenne Martina Mutoni (su richiesta, il nome reale non viene divulgato) stava pensando di togliersi la vita. La donna, scienziata in un’istituzione pubblica strategica a Kigali, soffriva di depressione e non sapeva nulla riguardo questo problema di salute mentale.
“Prima di cercare aiuto medico, non ero a conoscenza di cosa fosse esattamente la depressione e riconducevo il mio malessere allo stress. Ho perso l’appetito, non riuscivo a dormire, la vita non sembrava più interessante“, ha detto a The New Times.
La dottoressa Cindi Cassady, psicologa clinica presso l’Icyizere Psyhotherapeutic Center – struttura specializzata nella cura della salute mentale a Kigali – dichiara che un sondaggio nazionale condotto nel 2018, il Rwanda Mental Health Survey, ha rilevato che i disturbi di salute mentale prevalenti nella popolazione generale si presentavano come: episodi depressivi maggiori (12%), disturbo di panico (8,1%) e disturbo da stress post-traumatico (PTSD) (3,6%).
I problemi di Mutoni erano peggiorati durante la prima ondata di Covid-19 dell’anno scorso, quando si è trovata da sola nell’entroterra, “lontana dalla famiglia” e dal supporto degli amici.
“Ho perso ogni interesse. Non volevo più nemmeno guardare un film o, come ogni donna, lavarmi e vestirmi bene. Ho provato un dolore così profondo da non poter essere espresso a parole. Mi sentivo chiusa in una scatola molto buia, era così difficile sorridere“.
Il pregiudizio della società riguardo le malattie mentali è stato uno dei suoi peggiori nemici: ha peggiorato le cose e l’ha indotta a ritardare la richiesta d’aiuto.
“Quando ho sofferto di depressione per la prima volta, la gente diceva che ero stregata. Altri dicevano che ero stata educata male e che ero solo una bambina viziata. Molte persone pensavano semplicemente che la depressione non fosse un problema reale“, ha detto Mutoni.
“Lo stigma ha solo peggiorato la mia situazione. La cosa peggiore è stata essere etichettata; per la società ero pazza, umusazi, o fingevo di essere malata. La verità è che nessuno, a parte gli esperti di salute mentale, può identificare i problemi psicologici o psichici“.
Tuttavia, dopo aver cercato aiuto all’ospedale neuropsichiatrico (CARAES Ndera), Mutoni ha ricominciato a sentirsi come prima, piena di vita e ottimista. Ed produttiva sul lavoro.
“Ora non voglio più morire“, esclama la donna ridendo. “Mi godo la vita, amo il mio lavoro e ho progetti per il futuro. Ho capito che bisogna avere coraggio, accettare la depressione come una malattia normale ed essere disposti a cercare assistenza medica. È importante ottenere la giusta diagnosi e la giusta cura. Si può vivere una vita normale“.
Chi soffre di disturbi mentali può lavorare e sposarsi
Nel suo messaggio per la Giornata mondiale della salute mentale, il 10 ottobre, il dottor Bizoza Rutakayire, psichiatra del CARAES Ndera, ha twittato: “Le persone con disturbi mentali sono esseri umani come gli altri. Dobbiamo riconoscere il valore della loro umanità e offrire loro l’opportunità di vivere bene come gli altri“. Dopo il trattamento medico, ha notato il dottor Rutakayire, possono lavorare e sposarsi. “Dobbiamo evitare qualsiasi tipo di pregiudizio su queste persone e aiutarle ad evitare qualsiasi auto-stigma, che a volte può essere ancora più doloroso dello stigma esterno“, ha aggiunto.
Celebrata per la prima volta nel 1992, la Giornata mondiale della salute mentale è una giornata internazionale per l’educazione, la consapevolezza e la difesa della salute mentale globale contro lo stigma sociale.
A ottobre, è stata avviata una campagna nazionale di sensibilizzazione sui disturbi psicologici e psichici con l’obiettivo di mettere in luce i rischi di depressione e suicidio, soprattutto tra i bambini e gli adolescenti.
Le lotte di Martina Mutoni contro lo stigma non sono così diverse da quelle di Jessy Mugisha. L’unica differenza, forse, è che Mugisha, 32 anni, operatore di pet therapy con cani e allenatore di basket, parla apertamente del suo disturbo e delle problematiche che riguardano le persone con problemi di salute mentale.
Mugisha ha dichiarato che gli è stata diagnosticata una condizione che i medici hanno chiamato ‘disturbo da deficit di attenzione iperattiva’, che “è caratterizzata dalla presenza di una forma di depressione cronica“. L’uomo ha aggiunto: “Non riesco a concentrarmi molto e la cosa peggiora con l’età. Da bambino non facevo altro che leggere libri. Consumavo libri di mille pagine durante la notte. La mia mente va sempre superveloce e si collega a tanti pensieri diversi“.
“Ora però soffro di iperconcentrazione. Sono sempre stato uno studente compulsivo con un bisogno costante di nutrire il mio cervello e imparare cose stimolanti. Ma una volta assimilate le informazioni, non riesco a concentrarmi di nuovo su di esse, perché ci vorrebbe troppo tempo per imparare tutto ciò che c’è da sapere su un preciso argomento e, se le cose fondamentali sono state già assimilate, l’interesse spesso viene a mancare”.
Tale disturbo, ha detto Mugisha, rende impossibile la frequentazione della scuola, così ha deciso di abbandonarla. Mugisha non era a conoscenza del suo disturbo fino all’anno scorso quando, proprio come Mutoni, ha incontrato la dottoressa Cassady.
Aiutare chi ci circonda nel modo più umano possibile
Come nel caso di Mutoni, lo stigma e la discriminazione hanno peggiorato i problemi di salute di Mugisha, intrappolandolo nel circolo vizioso della malattia.
Mugisha ha raccontato diversi episodi di stigmatizzazione, tra cui quello in cui, l’anno scorso, sua madre, ora in pensione, voleva iscriverlo alla sua assicurazione sanitaria. Mugisha ha dichiarato: “Abbiamo ottenuto un certificato medico che attestava la mia condizione e abbiamo incontrato un medico della previdenza sociale, non ricordo il suo nome. Ero davvero interessato all’intero processo. Dopodiché, quest’uomo ha affermato, senza battere ciglio, che non ho una disabilità perché non sono su una sedia a rotelle“.
“Sono stato molto tranquillo per tutto il tempo, ma quello è stato il momento che mi ha fatto irritare. Mi sono arrabbiato e ho deciso di educarlo un po’ su quanto fosse inappropriata, dannosa, irrispettosa e ignorante la sua definizione di disabilità“.
Mugisha ha dichiarato che, per educare le persone sul tema c’è ancora molta strada da percorrere, per far capire “che queste patologie sono reali anche i medici vanno sensibilizzati sulla salute mentale“. “Personalmente penso che al momento l’impegno maggiore di cui dobbiamo farci carico sia quello di compiere passi da gigante in questo percorso, per aiutare noi stessi e coloro che ci circondano nel modo più umano possibile“.
La dottoressa Cassady ha affermato che è importante capire perché le persone stigmatizzano gli altri. Il più delle volte, ha notato, informazioni errate, paura e mancanza di conoscenza accurata o consapevolezza, sono le basi per la maggior parte dello stigma contro la malattia mentale. Cassady ha spiegato che il pregiudizio sociale è pericoloso perché divide le persone sulla base della paura e dell’ignoranza.
“È la concezione di ‘altro’ che può portare all’odio e, all’estremo, anche alla violenza. Quando percepiamo un gruppo di persone come diverso da noi in modo negativo, lo consideriamo come ‘altri’ e di conseguenza, ci poniamo contro di loro“, ha affermato la dottoressa.
Cassady ha poi elencato sette tipi di stigma, tra cui quello pubblico che si verifica quando la collettività approva stereotipi negativi e pregiudizi, con conseguente discriminazione contro le persone affette da malattia mentale. Vi è poi l’auto-stigma, quando una persona, che soffre di disturbo psicologico o da uso di sostanze, interiorizza lo stigma pubblico.
Evitare le etichette insultanti o degradanti
Per quanto riguarda le pratiche migliori per porre fine allo stigma, la dottoressa Cassady ritiene che attualmente si stia cominciando a parlare più apertamente della salute e del disturbo mentale.
“Oltre a parlare apertamente, informatevi sulla malattia mentale. Per esempio, cos’è esattamente la depressione? Come viene e come si cura? Siate consapevoli dei vostri atteggiamenti e del vostro giudizio verso le persone con problemi psichici. Concentratevi sugli aspetti positivi della vita. Le malattie mentali, comprese le dipendenze, sono solo una parte del quadro generale di una persona. Evitate le etichette che sono insultanti o degradanti“, ha dichiarato la dottoressa, sottolineando che il sostegno emotivo può fare la differenza.
In Ruanda, il dottor Celestin Mutuyimana, psicoterapeuta, ha notato che lo stigma pubblico emerge maggiormente laddove c’è mancanza di comprensione da parte di familiari, amici, colleghi di lavoro o altri. Esso si traduce in minori opportunità di lavoro, studio o di praticare attività sociali, o in difficoltà a trovare un alloggio. Anche il bullismo, la violenza fisica o le molestie, sono manifestazioni dello stigma pubblico.
Il dottor Mutuyimana ha affermato che il pensiero comune, erroneamente, ritiene che i problemi di salute mentale siano cronici e che non possano essere curati e migliorati.
“Lo stigma in Ruanda rappresenta ancora una grande sfida a livello familiare, comunitario e istituzionale. Per esempio, stavo tornando in macchina da Ndera. Un paziente, con le medicine in mano, era in piedi sul ciglio della strada e chiedeva un passaggio“, ha detto il dottor Mutuyimana. “Ha cercato, invano, di fermare un’auto. Ho accelerato per raggiungerla e domandare perché non si fossero fermati. La risposta è stata: ‘come puoi dare un passaggio a una persona con problemi mentali, un umusazi?”
I modi migliori per sradicare lo stigma, ha detto Mutuyimana, includono campagne sociali anti-stigma, in cui persone affette da disturbi mentali si aprano e condividano le loro storie. È necessaria anche la promulgazione di una legge contro lo stigma a livello familiare, istituzionale e comunitario.
Attualmente a Kigali è in costruzione una struttura medica che dovrebbe giocare un ruolo significativo nell’affrontare le sfide della salute mentale.