(Tamale) – Nessuna ricorda la sua età, tutte sanno da quanto tempo sono qui. O almeno, rispondono senza indugi alla domanda. Secondo una percezione del tempo che appare diversa tra un prima e un dopo. Il prima era una vita da donne libere, il dopo è una vita di donne bandite dalla società.
Sono streghe, si dice. Hanno usato i loro poteri soprannaturali per fare del male, provocare siccità, dividere le famiglie, uccidere, si dice. Basta quel “si dice” per farne delle outcast, per scacciarle, picchiarle, persino linciarle. È accaduto molte volte. Una follia collettiva, che quando arriva deve scaricare la sua energia prima di fermarsi. La credenza nella stregoneria (witchcraft) rimane fortemente radicata nel Nord del Ghana (Northern Region).
Una credenza legata a ignoranza, pregiudizi, gelosia, invidia persino, e che – non a caso in una società di tipo patriarcale – è accompagnata (oppure dettata) dalla misoginia, dal sessismo. Le accuse di stregoneria riguardano, infatti, soprattutto le donne (gli uomini solo in una piccolissima percentuale). E si tratta perlopiù di anziane, spesso vedove. Un capro espiatorio per chi – per ignoranza e cultura radicata – spiega malattie o “sfortune” come l’azione malevola di qualcuno.
In questa parte del Paese è una credenza consolidata nei secoli, difficile da sradicare e anche difficile da interpretare, tanti sono i fattori che la compongono. Per essere accusate e cacciate dalla propria comunità basta un nulla, il sogno di qualcuno che poi lo racconta agli altri: “quella è una strega, minaccia la mia famiglia”; la morte di qualcuno, soprattutto bambino o giovane; la convinzione di una “rivale”, così di solito viene definita l’altra moglie, ovviamente più giovane, del proprio marito. Poligamia e paganesimo sono molto diffusi, si tratti di persone di religione musulmana o aderenti alla religione tradizionale, appunto.
Donne anziane, dicevamo, che spesso dunque non sono altro che un peso per le famiglie, non possono più far figli, fanno fatica a lavorare o cominciano a comportarsi “in modo strano”. Un modo strano che altrove verrebbe identificato magari come demenza senile, ma che qui può diventare una condanna. Una condanna all’isolamento, lontano il più possibile dalla comunità di appartenenza.
Ad accogliere queste donne bandite dalla società sono i witch camps, sorta di rifugio secondo alcuni, una prigione a cielo aperto secondo altri. Sparsi nel Nord del Ghana ce ne sono sei, due sono stati chiusi solo recentemente grazie a progetti di rimpatrio. Rimpatri non sempre facili e che richiedono una serie di incontri e dialoghi con i membri della comunità affinché siano d’accordo e pronti a riammettere “la strega”. E a decidere sono gli uomini.
Si tratta di luoghi “amministrati” da un chief che ha una sorta di dovere morale di assistenza. In alcuni c’è anche lo shrine, il tempio dove le donne che arrivano si sottopongono a rituali e cerimonie che da un lato hanno il compito di accertare la “colpevolezza” della donna, dall’altro di eliminare tutti i suoi poteri. Una sorta di esorcismo tradizionale. Non c’è alcun dubbio infatti che quasi tutti credano nell’esistenza della stregoneria e nei poteri magici di queste donne, potenzialità soprannaturali che possono essere anche tramandate ai figli. È uno stigma che, una volta fissato sulla persona, è difficile da rimuovere.
Le stesse ONG e varie organizzazioni che si occupano a livello locale di questi campi, quando organizzano attività di sensibilizzazione all’interno delle comunità evitano di usare il termine superstizione proprio per non andare in conflitto con le credenze e le tradizioni locali. “Non è giusto picchiare le donne anziane” questo è il messaggio principale quando si organizzano confronti all’interno delle comunità di provenienza di queste donne. “Dobbiamo procedere per gradi, non possiamo fare diversamente” afferma Daniel Ngota della Witch Hunt Victims Empowerment Project.
E così la superstizione rimane inalterata sperando che passi il messaggio che riesca almeno a prevenire la violenza fisica su queste donne. Rimane la violenza psicologica, il dolore, l’abbandono. “Si tratta di una vera e propria violazione dei diritti umani” ci spiega Lamnatu Adam, direttrice della ONG Songtaba (che in lingua dagomba significa aiutiamoci l’uno con l’altro).
Molte di queste donne non riescono a superare l’umiliazione che hanno subìto, non riescono a dimenticare come sono state trattate e oltre alla perdita materiale di una vita un po’ più confortevole risentono della lontananza dai figli e dai nipoti.
Si tratta di donne psicologicamente provate e senza alcun supporto adeguato per superare il trauma a cui sono state sottoposte.
Il Ghana Health Service ritiene di non avere nessun obbligo di un approccio psicologico, di consulenze o cure. E non c’è nessuno sforzo in questo senso. Dopotutto questa viene considerata una questione che riguarda la sfera spirituale, non un problema sociale,
continua la direttrice della ONG. “Non sono poche le donne che manifestano pensieri suicidari. Molte ci dicono: vorrei non essere nata, vorrei che la mia vita finisse qui. Non dovremmo sottovalutare queste parole. Sono persone che soffrono”.
Ma la prostrazione di queste donne è anche causata dall’estrema indigenza in cui sono costrette a vivere. Le più fortunate ricevono di tanto in tanto la visita di uno dei figli (e quindi un po’ di denaro, di cibo, di sapone). Altre sopravvivono con quanto passa loro il chief o le organizzazioni che hanno programmi all’interno dei campi. Qualcuna rientra nel LEAP, un programma governativo sulla lotta alla povertà. Altre fanno lavori nei campi nei villaggi più vicini o altre piccole attività. Ma sono anziane, spesso ammalate, e per molte lavorare è impossibile.
Saltare i pasti è normale, pasti costituiti quasi esclusivamente da mais, niente proteine. A peggiorare la condizione di queste donne anche l’assenza di quei volontari, per esempio medici, che periodicamente venivano in questi campi per fare screening, fornire medicine o portare piccoli aiuti.
La pandemia ha conseguenze anche qui. Oggi sono meno di un migliaio le donne ospitate nei vari campi, in una decina d’anni ne sono state rimpatriate circa 220, ma altre – anche se parrebbe in misura minore a quanto avveniva in passato – continuano ad arrivare. La maggior parte di loro è destinata a morire e ad essere sepolta qui, lontano da casa. “Quando abbiamo i contatti dei figli li avvisiamo, ma non tutti sono disposti a venire a prendere la madre per seppellirla a casa” dice Lamnatu Adam.
Eppure in questi luoghi rimane acceso un sentimento, quello della solidarietà. Stare insieme, “condividere lo stesso fato” come ci ha detto qualcuna di loro, contribuisce a creare comunità. In uno stesso campo ci donne che provengono da villaggi ed etnie diverse, che parlano lingue diverse, eppure riescono a capirsi, a trovare motivi per ridere, per alleggerirsi il morale.
L’elemento più triste di questi luoghi (seppure di grande aiuto e conforto per queste donne) è la presenza di bambini o ragazzi (più spesso ragazze) molto giovani. Sono i figli delle donne accusate di stregoneria o nipoti mandati dalla famiglia ad accudirla. Alcuni vanno a scuola, molti no. Una generazione su cui ricade lo stigma della madre, della zia, della nonna. Uno stigma da cui è difficile liberarsi – anche quando gli dèi, al termine delle cerimonie rituali, dicono che non hai più poteri, che non puoi più fare male a nessuno.
In realtà in gioco ci sono le strutture sociali e di potere, che vedono le donne, le donne anziane, le donne prive di mezzi economici, sul gradino più basso di una scala sociale fortemente gerarchizzata. Una gerarchia fatta di uomini, uomini che possiedono la terra, uomini che decidono la vita delle donne. E di chief che per quanto si prendano in carico la vita delle “streghe” e la proteggano, continuano a trovare normale che ci siano donne accusate di crimini invisibili. Ma, dicevamo, si tratta di un fenomeno complesso, dove qualunque giudizio rischia di trascurare una parte della realtà. O di riuscire a vederla solo attraverso la propria lente.
[Nella galleria fotografica che segue diamo voce alle donne che abbiamo incontrato nei quattro campi visitati con l’ONG Songtaba e con la Witch Hunt Victims Empowerment Project. In parentesi gli anni di permanenza nel campo dichiarati dalle donne intervistate. Tutte le foto sono dell’autrice del reportage.]
Abina (Gnani Camp, Yendi Municipality, 15 anni) - Sono qui da tanto, mi sono abituata a questo posto. Certo, mi piacerebbe tornare a casa, ma non voglio rischiare di essere picchiata o uccisa. Ci sono donne che sono rientrate nel loro villaggio ma poi sono ritornate qui. Quando sarò molto vecchia e sentirò che sto per morire chiederò ai miei figli di venirmi a prendere ma se mi lasceranno qui va bene lo stesso. Qui dopotutto stiamo tutte insieme, condividiamo lo stesso destino.
Biniti (Gnani Camp, 7 anni) - Ho tre figli, ogni tanto qualcuno viene a trovarmi ma non così spesso. Un giorno sono tornata a casa dal mercato, alcune persone mi hanno circondato e mi hanno detto: sei una strega, devi andartene. Cosa potevo fare? Qui sopravvivo lavorando la terra di qualcuno del villaggio vicino. A fine giornata mi danno sempre qualcosa e almeno mangio.
Nwaajo (Gnani Camp, 4 anni) - Sono stati i membri della mia comunità ad accusarmi. Mi hanno detto che ero colpevole della morte di un bambino. Ed è così che sono venuta qui, per salvarmi. Non so se sono stata io, non so se è vero quello di cui mi accusano, non so neanche se sono una strega. Sono ammalata.
Adamu (Kukuo Camp, Nanumba South District, 6 anni) - Ho sei figli, quando uno di loro è morto - eravamo andati dall’herbalist ma non c’è stato niente da fare – mi hanno accusato di esserne la responsabile. Una notte hanno dato fuoco alla mia casa. Mi hanno detto: se resti qui daremo fuoco anche a te. Ho chiesto io di venire dal priest e verificare se fossi o meno una strega. Ho bevuto il preparato [qui lo chiamano “concoction”, NdR] e il prete mi ha detto che non sono una strega. Ma la mia immagine è danneggiata, non posso tornare nella mia comunità. Uno dei miei figli mi ha costruito questa capanna, però viene una volta all’anno. "Sono tua madre, perché mi lasci sola così?"
Fusheina (Kukuo Camp, 5 anni) – Anche mia madre è stata qui, in questo stesso campo. Io vivevo coltivando un pezzetto di terra e così era la vita. Un giorno la figlia di un vicino si è ammalata, mi hanno detto: se muore morirai anche tu. I genitori di questa bambina (che poi è guarita) mi hanno assalito e presa a bastonate. Qualcuno è intervenuto ma io sono dovuta correre qui, neanche mio fratello che è una persona molto conosciuta, ha potuto fare nulla. Ora sono qui e nessuno può accusarmi, gli dei non lo permetterebbero. Qui nel campo non c’è discriminazione, né stigma, condividiamo la medesima storia. Però mi manca coltivare la terra, ora non ho neanche un seme da piantare… Comunque cerchiamo di sostenerci a vicenda, se un’altra donna ti vede triste o sola ti chiede cos’hai e se ha qualcosa da mangiare lo condivide.
Fusheina e la giovane nipote, 11 anni, che le è stata affidata per darle una mano (Kukuo Camp, 7 anni) – Mi hanno accusato di essere responsabile della malattia della figlia di mio fratello. Sia mio padre che mio marito erano già morti, quindi nessuno avrebbe preso le mie difese. Così, non ho aspettato che mi mandassero via. Sapevo che era meglio venire qui. Ma non sono colpevole, sì il witchcraft esiste, ma non sono stata io. Ho partorito, come potrei pensare di far del male al figlio di un altro, di un fratello? Sarebbe come fare del male a un figlio mio. No, non tornerei nella mia comunità, neanche se potessi, sarei una nemica per loro. Sono più al sicuro qui.
Ashia (Kukuo Camp, 2 anni) – Facevo il mio lavoro, la mattina presto cucinavo e poi vendevo il cibo in strada. Una mattina, mentre stavo cominciando a preparare, mio marito mi ha detto: "oggi non cucinare, è morto qualcuno nel villaggio e accusano te". È stato mio fratello maggiore a portarmi qui per provare la mia innocenza o colpevolezza. Ho bevuto la pozione che mi ha dato il priest e mi ha detto che ero libera. Ma mio fratello mi ha detto: non posso portarti indietro. Aveva ragione, nessuno avrebbe più comprato il mio cibo. Se vuoi vivere in pace resta qui, ripeteva. E così ho fatto. Mio marito non è mai venuto a trovarmi. Ho 6 figli: loro vengono, sì, di tanto in tanto …
Kasua (Kukuo Camp, 27 anni) – Me lo ricordo bene quando sono venuta qui, erano i giorni della Guinea fowl war [il conflitto Konkomba-Nanumba, NdR]. C’erano tante donne quando sono arrivata, ora ce ne sono meno. Qui sono diventata vecchia, ma è venuto a vivere con me uno dei miei figli con la famiglia, così non sono più sola. Hanno detto che ho ucciso il figlio di mio fratello. Come potevo oppormi? Mio marito era già morto, non potevo fare altro che venire qui. "Non ho niente da darti per ringraziarti" - mi dice mentre la saluto - "ma pregherò per te …"
Damba Tialana (Kukuo Camp) – A Kukuo, che si trova nel distretto Nanumba South, c’è lo shrine, sorta di piccolo tempio tradizionale dove vengono eseguiti rituali di purificazione. Damba Tialana è l’autorità “religiosa” (pagana) in questo campo, e compie tali rituali per ogni donna che arriva qui. “Nello shrine si porta giustizia, sono gli dei a darci la risposta e a dividere la bugia dalla verità”. Quando gli chiedo che senso abbia, visto che comunque anche le donne “giudicate” non colpevoli rimangono nel campo, sorride. “Preferiscono restare per non subire lo stigma che ormai le ha già colpite”. Ma c’è dell’altro: “finché restano qui perdono il potere, ma lo riacquisterebbero se andassero via”. E aggiunge: “ho salvato tante persone, sia la loro vita, sia a livello spirituale. E ho salvato anche le vite di quelli che potevano essere uccise da queste. Ora sono powerless, non hanno più poteri, e io ho portato giustizia in questa comunità”. Uno dei rituali consiste nel far bere della semplice acqua all’accusata, se vomita o ha diarrea allora è la prova della colpevolezza …
Bariba (Gushegu Camp, Gushegu Disctrict, 7 anni) – Dicevano che mangiavo bambini, ma io non lo so. So solo che mia madre mi ha dato la vita, poi più nulla … C’era una persona malata, hanno cominciato ad accusarmi, questa persona prima di morire ha detto che io non c’entravo nulla, ma la famiglia non gli ha creduto. Sono andati da alcuni miei parenti che mi hanno spinto ad andarmene. Sto diventando vecchia ma qui sto bene, mi preparo il cibo da sola, di tanto in tanto arriva qualche aiuto. No, non tornerei nella mia comunità, neanche se potessi, so che mi ucciderebbero. Tante donne sono state uccise, sarebbe stato meglio per loro venire qui. Se si sono impossessati delle mie cose quando sono andata? E di cosa? Lavoravo un pezzo di terra, ma qui le donne la terra la hanno solo in uso, non la possiedono. Non avevo nulla. Sono nata musulmana, ma qui vado in chiesa. Ci vanno tutte le altre e allora io vado con loro.
Wanduayab (Gushegu Camp, 40 anni) – Nella mia comunità una donna si era ammalata (no, non è morta) e hanno accusato me. Non so perché proprio io, so che non avevo altra scelta. Avevano anche messo in giro la voce che mangio carne umana. Ma non è vero. Ci sono persone che usano la tua faccia, si appropriano della tua identità per commettere crimini, e così tu vieni accusata ingiustamente. Comunque quando mi hanno accusato mi hanno anche picchiato senza pietà. Qui il chief mi ha dato una buona accoglienza e un posto dove stare.
Salamatu (Gushegu Camp, 6 anni) – Una donna è diventata matta nel mio villaggio, e non si trovava una soluzione alla sua pazzia, hanno detto che era colpa mia, ed eccomi qui. Ma prima sono stata insultata e picchiata, come potevo rimanere nella mia comunità? Qui mi sento a mio agio. Con me c’è mia figlia, ha sei anni, va a scuola – certo è distante, ma non troppo – almeno lei potrà studiare, spero, e così avrà la mente più aperta. Ci sono altri bambini in questo campo e vanno tutti a scuola. Riceviamo qualche sostegno, di tanto in tanto, molto poco. Me la cavo lavorando per qualcuno che alla fine mi dà sempre qualcosa da mangiare. Oppure quando c’è mercato nel villaggio vicino a fine giornata vado a raccogliere il mais e il miglio rimasti a terra. Non sono sicura di voler tornare nella mia comunità. È accaduto una volta, accadrebbe di nuovo.
Wuni (Gushegu Camp, 8 anni) – Ѐ successo questo: ho assistito a un incidente in cui erano coinvolti due ragazzi che conoscevo, uno si è rotto una gamba. Il giorno dopo sono andata a visitarlo per sapere come stava, ma lui ha cominciato a urlare e a dire che avevo tentato di ucciderlo ma che non c’ero riuscita. Sono dovuta venire qui per trovare protezione. Avevo 3 figli, uno è annegato. Vivo con quello che mi danno e rivendendo la legna da fuoco che raccolgo nel bush.
Mercy (Gushegu Camp, 4 mesi) – La mia “rivale”, la moglie più giovane di mio marito, si è ammalata e ha detto che la colpa era mia, che la volevo morta. Ma io non so nulla di witchcraft. Sono triste, vorrei tornare a casa, ma se lo facessi mi rimanderebbero qui. Non so perché mi ha fatto questo. Ho tre figli, sono venuti a trovarmi. È venuto anche mio marito e mi ha detto che devo restare in questo posto.
Chief Wuni Yahiya (Gambaga Camp, East Mamprusi Municipality) – Ѐ capo del villaggio da 28 anni ed è responsabile di questo campo che ospita 78 donne e 29 bambini. Al di là delle ONG e dei volontari – la cui attività dallo scorso anno a causa del Covid si è praticamente interrotta – è lui, ma soprattutto il figlio maggiore (causa l’età del chief) a gestire le modalità di intervento e l’eventuale distribuzione di cibo.
Wuni (Gambaga Camp, 15 anni) – Dormivo, all’improvviso mio marito mi ha svegliata, mi ha informato che la mia “rivale” stava male e che la colpa era mia. Sono andata da mio fratello. Ho pensato: visto che mio marito mi sta facendo questo vuol dire che non mi vuole più. Non ci sarebbe stato nessuno a proteggermi. Sono venuta qui da sola, a piedi, solo con quello che avevo addosso. Se esiste la stregoneria? Sì, esiste, è come il vento, sta nell’aria, non puoi fare nient’altro che accettare ciò che ti accade. Qui sto bene, con altre donne facciamo collane di perline e lavoro il cotone. I miei figli erano piccoli allora, ora sono cresciuti, si sono sposati e ho dei nipoti.
Sabiratu (Gambaga Camp, 7 anni e mezzo) con la figlia Waramatu di 17 anni. Waramatu ha frequentato solo 3 giorni di scuola alla primaria e non sa né leggere né scrivere, così come le altre donne del campo – "Un bel giorno mi hanno accusato di essere una strega. Se fosse vero o no, non lo so. Però mi sono battuta. Sono andata di mia iniziativa in uno shrine e ho dato al priest 400 Ghana cedi [€57, NdR] per la cerimonia e il pollo da sacrificare. Ho buttato i miei soldi perché comunque sono dovuta venire qui. La mia vita sarebbe diventata impossibile nella mia comunità".
Tanjong (Gambaga Camp, 30 anni) – Mi domandi perché sono qui? Sono confusa, ma te lo racconto, Il figlio della mia “rivale” ha sognato che volevo usare la stregoneria contro di lei. Il giorno dopo mi hanno distrutto il tetto, volevano dirmi che dovevo andarmene. Ho tentato di uccidermi, la corda che avevo stretto al ramo e intorno al collo si è rotta. Non era una buona corda. Sono caduta e sono svenuta, non so quanto tempo sono rimasta lì. Credo due giorni. No, nessuno mi ha soccorso, sapevano che ero una strega. Il figlio della mia “rivale” mi ha detto che sarebbe stato meglio per me venire qui. Sono povera e senza forze ma va bene così. Cosa posso fare?
Laale (Gambaga Camp, 10 anni) – Quando mio figlio è morto hanno detto che ero stata io. Se sono una strega? Io dico di no, ma se gli altri dicono il contrario non posso oppormi, devo star qui, anche se sono ammalata, anche se sono devastata. Non voglio morire qui. Ho partorito, ho tanti nipoti, perché non posso stare con loro?
Konjit (Gambaga Camp, 15 anni) – Ho avuto 5 figli, ora sono tutti morti, due durante il parto. Dicevano che ero io la causa, ero una strega, avevo ucciso i miei figli. Mi hanno minacciata con un coltello alla gola, ecco perché sono corsa qui. Oggi ho mangiato solo del kenkey [sorta di polenta a base di mais, NdR]. Se ieri ho mangiato? Non lo ricordo. Se sono felice o no di star qui cosa importa, cosa posso farci? Dopotutto, non è meglio vivere che morire?