In ogni parte del mondo, le persone disabili hanno a lungo condiviso un destino comune contraddistinto dalla più totale invisibilità.
I loro “bisogni speciali” sono stati infatti, fino a tempi piuttosto recenti, del tutto ignorati tanto dagli Stati che dalla comunità internazionale. L’assenza di adeguate normative e politiche tese a proteggere le specifiche esigenze di milioni di uomini, donne, bambini con deficit fisici e mentali, ha quindi portato gli stessi a vivere storie di discriminazione, stigma, segregazione, esclusione. E in parte è tuttora così, nonostante i disabili costituiscano la più grande minoranza globale (15% della popolazione).
Nell’agenda politica internazionale, la disabilità inizia ad assumere concreta rilevanza solo nel corso degli anni ’80, con l’approvazione da parte delle Nazioni Unite del “Programma mondiale di azione“. Una strategia generale fondata sull’assunto dell'”uguaglianza di opportunità” quale mezzo per consentire la piena partecipazione delle persone disabili a tutti gli aspetti della vita e dello sviluppo sociale ed economico.
È proprio durante questo periodo che germoglia un diverso approccio alla disabilità, basato sui diritti umani degli individui con minorazioni.
Non a caso nel 1987, in occasione della 42esima sessione dell’Assemblea Generale ONU (AG), l’Italia suggerisce l’elaborazione di una convenzione internazionale che “porterebbe a cambiamenti radicali nelle condizioni di vita dei disabili sia dal punto di vista pratico, sia nella percezione del loro ruolo all’interno delle comunità”. Due anni dopo, è la volta della Svezia. Il Governo di Stoccolma, esprimendo disappunto per la scarsa implementazione del “World Programme of Action”, ribadisce l’urgenza di dar vita a uno strumento vincolante in grado di permettere “l’integrazione dei disabili nella vita sociale, economica, politica, culturale“ da cui “trarrebbe grosso beneficio la società nel suo complesso”. Entrambe le proposte incontrano però il dissenso di molti Stati, convinti che i già esistenti trattati internazionali sui di diritti umani fossero sufficienti a garantire anche le persone disabili.
Occorrerà attendere oltre un decennio per una nuova iniziativa. Nel 2001, l’allora primo ministro messicano, Vincente Fox Quesada, propone, sempre in seno all’Assemblea Generale ONU, la creazione di un “Comitato speciale” con il compito di redigere “una convenzione a carattere universale per tutelare diritti e dignità delle persone disabili“. Il Comitato ad hoc viene istituito con risoluzione n. 56/168 del 19 dicembre 2001. E si riunisce per la prima volta il 29 luglio 2002.
I lavori preparatori coinvolgono delegazioni statali, agenzie e organi delle Nazioni Unite, organizzazioni intergovernative e ONG. Quest’ultime danno un valido contributo, fornendo importanti informazioni inerenti le reali problematiche vissute dai disabili nei diversi contesti anche geografici.
Dopo 5 anni di negoziati – davvero pochi trattandosi di un accordo internazionale – il 13 dicembre 2006, la Plenaria dell’AG adotta all’unanimità la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (CRPD) insieme a un Protocollo Addizionale. La CRPD viene aperta alla firma degli Stati e delle organizzazioni internazionali il 30 marzo 2007. Entra in vigore il 3 maggio 2008.
La CRPD presenta una serie di peculiarità sotto diversi punti di vista.
Anzitutto, tra i trattati sui diritti umani delle Nazioni Unite è quello che acquista piena efficacia legale più velocemente. Basti pensare che nel primo giorno di apertura alle firme, ben 82 Stati lo hanno siglato. A conferma dell’ormai diffuso convincimento di attribuire ai disabili, in quanto parte della varietà umana e pur nella loro vulnerabilità, un ruolo partecipativo nel contesto pubblico e privato, dando al contempo agli Stati un chiaro indirizzo nella disciplina della loro “diversità”.
La Convenzione, invero, non stabilisce nuovi diritti ma nei suoi 50 articoli promuove il pieno ed equo godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali da parte delle persone disabili, intendendo con tale termine “quanti hanno minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali a lungo termine”. E identifica gli adattamenti necessari affinché ciò avvenga. Si basa su otto principi guida (art. 3) finalizzati, a garantire l’effettiva attuazione dell’uguaglianza attraverso la rimozione degli impedimenti ambientali e culturali esistenti.
In secondo luogo, la CRPD segna il definitivo superamento del paradigma medico nella trattazione della disabilità e l’affermazione di quello sociale.
Per il primo modello, la disabilità è una condizione patologica che richiede l’esclusivo intervento di operatori sanitari e specialisti della riabilitazione fisica o mentale. In altre parole, il disabile viene considerato “sfortunato”, “inutile”, “malato”, bisognoso di assistenza, “dipendente” dalle costanti cure mediche nonché familiari. E in quanto tale, etichettato come incapace di partecipare e di apportare un contributo alla vita della collettività.
Il secondo modello invece, guarda alla disabilità in termini di “costrutto sociale”, spostando l’attenzione “dalle limitazioni funzionali delle persone disabili ai problemi causati dagli ambienti disabilitanti e da culture” che non valorizzano il diversamente abile. La dottrina giuridica internazionalistica sostiene che le persone disabili “non soffrano di disabilità ma di discriminazione”, in ragione di una serie di fattori, tra cui: l’istruzione non accessibile, i luoghi di lavoro e i sussidi di invalidità inadeguati, i trasporti impraticabili, gli edifici e gli alloggi pubblici con barriere nonché l’immagine svalutante del disabile veicolata dai media mainstream.
Grazie alla CRPD, concetti quali “progettazione universale” (art. 2), “accomodamenti ragionevoli” (art. 5, c. 3), “accessibilità” (art. 9), tutti tesi a favorire il diritto a un’esistenza indipendente e l’inclusione nelle comunità, cominciano ad essere meglio compresi e assorbiti tanto a livello internazionale che nazionale.
Va inoltre considerato che la CRPD costituisce per i Governi il punto di riferimento imprescindibile ai fini dello sviluppo di leggi, strategie, azioni, politiche domestiche in materia disabilità. Più precisamente, gli Stati parti si sono assunti l’obbligo di modificare le loro legislazioni e di attivare i programmi sociali in conformità alle prescrizioni della Convenzione stessa.
Il fatto che, ad oggi, 181 Paesi abbiano ratificato ovvero aderito alla CRPD sembrerebbe l’inequivocabile segnale di una forte volontà istituzionale diretta al miglioramento effettivo della qualità di vita delle persone con minorazioni. Ed è senz’altro vero che la Convenzione ha dato un significativo slancio nel cambiamento della mentalità, del linguaggio e del modo di rapportarsi ai disabili.
Tuttavia, in molte zone del mondo, l’accettazione teorica del modello sociale di disabilità non si è ancora tradotta in linee di condotta davvero applicabili. Di conseguenza, come evidenziato nel “Flagship Report on Disability and Development 2018” delle Nazioni Unite, gran parte delle persone disabili continua ad incontrare una serie di barriere economiche, politiche e culturali, che impediscono loro di avere una vita “normale”.
Questo discorso acquista una valenza particolare in riferimento all’Africa, nella misura in cui si riscontra una contraddizione di fondo tra il modo in cui è stata accolta la Convenzione e la sua successiva reale implementazione.
Il continente nero ha partecipato in maniera attiva alla stesura del testo della CRPD. Il Comitato ad hoc, infatti, includeva le delegazioni di: Camerun, Comore, Mali, Morocco, Sierra Leone, Sudafrica, Uganda. Ben 16 Stati hanno siglato la Convenzione nel primo giorno di apertura alle firme (30 marzo 2007) e 34 hanno proceduto all’immediata ratifica, contribuendo così alla sua rapidissima entrata in vigore. Inoltre, sulla scia della CRPD, l’Unione Africana ha esteso per ulteriori dieci anni (2010-2019) l'”African Decade for Persons with Disabilities“. E, nel 2013, ha adottato un nuovo “Piano continentale di Azione“, rispecchiante gran parte delle disposizioni contenute nella Convenzione avendo però riguardo agli specifici contesti africani.
In buona sostanza, l’Africa ha abbracciato con entusiasmo il nuovo strumento giuridico internazionale e si è adoperata, almeno sul piano formale, ad avviare un processo di trasformazione nel trattamento della disabilità.
Discriminazioni e abusi restano però il leitmotiv dell’esistenza dei disabili africani. Tale situazione è dovuta non tanto e non solo agli interventi legislativi, a volte insufficienti altre lacunosi, ma soprattutto a una commistione di elementi legati alla povertà, alle tradizioni locali, alla mancanza di consapevolezza e informazione, alle condizioni di isolamento rispetto al potere centrale di molte comunità locali.
La disabilità mentale, ad esempio, costituisce un enorme fattore di rischio per gli individui che ne sono affetti poiché li espone a maltrattamenti, torture, trattamenti inumani e degradanti. A tal proposito, in Ghana, secondo Human Rights Watch, nei cosiddetti “campi di preghiera”, i disabili mentali sono privati dei farmaci, incatenati agli alberi, spesso sotto il sole cocente, e forzati a digiunare per settimane come parte di un “processo di guarigione”. In altri Paesi dell’Africa occidentale, invece, le persone autistiche vengono abbandonate nei boschi e lasciate morire sul presupposto che siano “posseduti” da entità demoniache. Mentre in Tanzania, si uccidono gli albini per via di una “superstizione”, in base alla quale l’utilizzo di alcune parti del loro corpo “porterà a grandi ricchezze“.
La condizione dei disabili in Africa è talmente articolata da richiedere un più attento approfondimento, che sarà svolto in altra sede. Qui, è giusto il caso di ricordare che, nel 2018, l’Unione Africana ha approvato il Protocollo sui diritti dei disabili, che integra la Carta Africana dei diritti umani. Il Protocollo, non ancora entrato in vigore, potrebbe rappresentare una rinnovata chance per la concreta realizzazione dei diritti delle persone con disabilità, essendo più tarato sulla particolare realtà del continente e sulle sfide quotidiane che i disabili africani si trovano a dover fronteggiare.