[Traduzione a cura di Gaia Resta dell’articolo originale di Hoornaert Tijs Magagi pubblicato su Africa.com]
La pandemia da Covid-19 ha innescato una crisi su scala mondiale per quanto riguarda la salute mentale. Per quanto possa sembrare una narrazione ormai trita, è in realtà facile dimenticare che un vero e proprio campo minato – sul piano psicologico – aspettava già da tempo di essere calcato dai migranti rientrati in patria. Non è solo la pandemia a mettere alla prova il loro sistema immunitario psicologico (che si rivela più resistente di quanto avremmo potuto immaginare): dopo il ritorno, i motivi di gioia svaniscono ben presto. Le difficoltà che queste persone devono affrontare non possono essere dimenticate.
In base alla definizione fornita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2004, la salute mentale è “uno stato di benessere nel quale l’individuo è in grado di sfruttare le sue capacità, affrontare le normali difficoltà della vita quotidiana, lavorare in maniera produttiva e fruttuosa ed è in grado di contribuire alla sua comunità”.
La Giornata mondiale della salute mentale costituisce un’opportunità per sensibilizzare quante più persone possibili sul tema e per mobilitare sostegno concreto. Tutti i professionisti che lavorano nel settore hanno così la possibilità di parlare del loro lavoro e di cosa è necessario fare: in questo modo, in quel giorno, la cura della salute mentale diventa una realtà concreta per moltissime persone in tutto il mondo.
In questo articolo parleremo di come un approccio volto alla salute mentale e al supporto psicosociale (MHPSS) sia fondamentale per tutti i programmi e i progetti dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) in Africa occidentale.
Poiché la missione dell’IOM è sostenere la dignità e i diritti umani dei migranti, l’approccio MHPSS – che si basa sull’interconnessione di fattori bio-psicologici, socio-economici/socio-relazionali e culturali, è fondamentale per tutti i i suoi programmi e i suoi interventi. Tra questi ultimi, il più recente è la campagna di sensibilizzazione “Migrants as Messengers“ (MaM, in italiano Migranti come Messaggeri) che è stata condotta in 7 Paesi dell’Africa occidentale: Costa d’Avorio, Gambia, Guinea, Liberia, Nigeria, Senegal e Sierra Leone.
Tale campagna si è incentrata anche sulla salute mentale e sul benessere psicosociale dei migranti tornati nei loro Paesi che hanno partecipato in veste di volontari. L’obiettivo è quello di aprire spazi sicuri dedicati all’incontro e al confronto tra pari, che si spera diano vita a una comunità organica e solida costituita da oltre 300 volontari.
“Essendo più protetti rispetto agli spazi pubblici della cittadinanza attiva, in questi contesti i migranti rientrati in patria possono scambiarsi a un livello profondo le proprie esperienze di sofferenza e resilienza. Molti di loro hanno condiviso per la prima volta aspetti drammatici del loro viaggio e le difficoltà vissute al ritorno, trovando in chi li ascoltava sostegno e riconoscimento reciproco del valore delle proprie esperienze”, ha commentato Marilena Crosato, Funzionaria per il Coinvolgimento della Comunità per lo IOM.
La campagna MaM rappresenta una sfida e un’innovazione per l’approccio MHPSS sotto tre aspetti: rinforza l’approccio partecipativo all’ideazione e all’attuazione delle attività che coinvolgono la comunità, accentua la radicale importanza del racconto e rende imprescindibile la comunicazione tra pari, il sostegno e i gruppi.
Condividere i racconti dei loro viaggi – al fine di sensibilizzare circa l’incredibile resilienza che hanno mostrato di fronte a cambiamenti repentini – aiuta i volontari a trovare il loro posto all’interno della comunità.
In Senegal, la campagna MaM impiega una nota tradizione africana come quella del racconto per aiutare i volontari a comprendere che quello di migrare è sempre stato uno dei principali obiettivi dell’essere umano. I partecipanti sono accompagnati da uno psicologo e da un narratore esperto in racconti africani intorno al fuoco. Lo scopo è di guidare i migranti nel processo di presa di coscienza che li porterà a normalizzare la loro storia o la loro esperienza prima di condividerla con gli altri.
Un volontario ha descritto l’impatto positivo dell’attività con queste parole: “È stato molto bello, la storia dell’avvoltoio e della mucca mi ha davvero commosso. È esattamente quello che è successo a me con i trafficanti. Le storie parlano della vita, insegnano sempre qualcosa… Voglio usare tutto questo per far capire alle persone che non devono lasciarsi ingannare dalle belle parole.”
In questo senso, la facilitazione del sostegno tra pari agisce aiutando a creare legami, a formare una rete di supporto di tipo sociale, emotivo, fisico e tangibile; inoltre, può aiutare i migranti di ritorno/volontari a sentirsi parte di un gruppo, a superare le dinamiche dell’isolamento sociale e a costruire un ponte verso le comunità.
Quando una persona migra, si attua una separazione dall’ambiente sociale di riferimento, come quello della famiglia. L’incertezza temporale è legata all’incertezza spaziale. Se non abbiamo modo di sapere dove siamo al sicuro, allora non possiamo neanche sapere quando saremo al sicuro. Premiamo il tasto dell’avanti veloce fino al ritorno a casa. Come molti altri aspetti legati alla migrazione, l’impatto a livello mentale del viaggio non si distribuisce in maniera equa. Gli amici, i parenti e, per estensione il villaggio, esprimono le loro reazioni in forme molto accentuate quanto differenti.
Una possibilità per combattere lo stigma sofferto al momento del ritorno, è insegnare ai migranti a esprimere le loro emozioni attraverso varie tecniche come la danza o l’arte.
Ricerche successive hanno dimostrato che la psicoterapia basata sull’arte potrebbe costituire un forte strumento comunicativo per raccontare la cultura e la storia delle persone, la loro visione della vita e le loro esperienze personali. Se da una parte ci sono dei progressi rispetto al miglioramento e alla promozione dei principi e delle pratiche per una migrazione sicura, dall’altra il supporto psicologico basato sull’arte può diventare un mezzo ancora più importante per facilitare la comunicazione dell’esperienza dei migranti e l’espressione delle emozioni e dei pensieri difficili da comunicare verbalmente.
“A volte le parole non possono descrivere quello che abbiamo passato in Libia, ma Speaking Through Arts [Parlare tramite le Arti] ci ha dato un altro strumento per raccontare le nostre esperienze con i dipinti, senza paura di essere discriminati”, ha detto Friday Queeneth, una volontaria del MaM residente nell’Edo, uno Stato delle federazione nigeriana, che ha tratto beneficio da questo innovativo approccio volto alla consapevolezza.
Questa attività non riguarda soltanto l’esperienza del migrante raccontata attraverso le immagini, ma costituisce anche una strategia di empowerment che consente ai partecipanti di apprendere l’empatia e la compassione.
Le attività del MaM vengono sviluppate insieme alle comunità di origine dei migranti. Il loro benessere psico-sociale è fortemente legato a fattori strettamente interrelati al concetto di comunità. Tra questi il senso di appartenenza e di identità, l’esplorazione delle regole sociali, l’esperienza del riadattamento culturale e l’enfatizzazione della dinamica tradizione-cambiamento.
Solomon Correa, un insegnante di danza e membro della Supportive Activists Foundation in The Gambia ha lavorato con alcuni migranti rientrati in patria. “La danza offre loro un senso di comunità in quanto persone differenti condividono le loro emozioni. È come una terapia. Dopo aver danzato, si sentono sollevati dai loro fardelli e dal dolore che provano”, ha detto.
A questo fine, la campagna MaM impiega – nell’ambito delle attività di sensibilizzazione – approcci non solo di tipo tradizionale ma anche creativi. Come accennato prima, la danza è un potente strumento di advocacy che può ispirare i giovani, destare l’interesse dei più scettici e promuovere il dibattito sulla migrazione, mentre allo stesso tempo fa migliorare lo stato psicologico ed emotivo dei messaggeri.
“Ho capito che la capoeira (una forma d’arte brasiliana che unisce la danza e le arti marziali) poteva costituire una fonte innovativa e sostenibile di sostegno psicologico per i migranti rientrati in patria, grazie alla quale possono ritrovare un benessere emotivo e fisico”, ha dichiarato Muhammed Touray, funzionario per la Promozione della Salute Nazionale presso IOM The Gambia.
In Costa d’Avorio, la campagna Mam ha organizzato un laboratorio sull’accettazione del corpo. Le beneficiarie dell’attività sono otto donne migranti ritornate in patria che inoltre presenteranno tre performance di danza narrativa, basate sulle storie dei loro viaggi migratori.
“Quando il sabato pomeriggio partecipo a queste lezioni sull’accettazione del corpo, ho l’occasione di lasciarmi andare” ha raccontato Aicha Konaté, una volontaria del MaM in Costa d’Avorio. “Divento consapevole del peso delle emozioni e dell’importanza di liberarle. Voglio imparare a perdonare davvero me stessa e ad alleggerire il mio cuore dal risentimento, dalla rabbia e dalla tristezza che provo ancora dentro di me per via delle difficoltà che ho dovuto affrontare in Tunisia e in Libia”.
Il rapporto tra corpo e mente è uno degli elementi coinvolti in questo percorso, in quanto entrambi sono esposti, hanno sofferto e cercano di superare il muro invisibile che li separa. Questo approccio ad ampio raggio può aiutare i migranti a unire il vecchio sé con il nuovo e ad accettare l’auto-consapevolezza appena acquisita.
Per i migranti rientrati in Africa occidentale, la realtà è stata questa per molti anni: quando si tratta di parlare di problemi legati alla salute mentale, è meglio evitare pur di sottrarsi allo stigma. A volte quando si esprimono apertamente, le comunità di riferimento si rivelano sorde a una richiesta di aiuto che va oltre gli aspetti materiali. È una richiesta di aiuto che riguarda il benessere psico-sociale di individui o gruppi, in seguito a un eventuale trauma.
Per i migranti tornati in patria, lo stato di benessere che caratterizza una buona salute mentale è messo alla prova da fattori insiti nella definizione stessa di salute mentale e nelle circostanze di alcuni viaggi migratori.
Gli specialisti della salute mentale parlano spesso dei cinque elementi fondamentali della terapia psicologica: calma, auto-efficacia, connessione, speranza e sensazione di sicurezza. Questi fattori sono da mettere in pratica ora più che mai.
A livello organizzativo, la reazione dipenderà da un ampio screening che, in tempi di pandemia, sarà per la salute mentale l’equivalente dei tamponi per quanto riguarda la salute fisica.
Dobbiamo tenere a mente queste lezioni imparate a costo di grandi sofferenze: i migranti non sono vittime passive di cambiamenti che colpiscono i loro ambienti di provenienza, ma sono i gestori attivi del loro stesso benessere. Questa consapevolezza dovrebbe incoraggiarci a mettere in pratica i cambiamenti di cui le nostre società possano aver bisogno, e in particolare a sostenere i migranti rientrati in patria e le comunità che sono state maggiormente colpite ma hanno mostrato una grande resilienza. Ogni migrante merita un luogo dove poter tornare sentendosi a casa.