Ghana, la solitudine dei malati mentali in corsie che erano prigioni
(Accra) – Siede a terra con le gambe tese e incrociate. È nuda. Non mi guarda. È intenta a guardare il suo corpo nudo. Chissà perché. Chissà cosa pensa e se c’è un senso. L’ha portata qui “un buon samaritano”, mi dicono. Non si sa chi sia, nemmeno il suo nome, e ha un’età indefinibile. Rifiuta di vestirsi, questa è l’unica cosa evidente. Insieme alla solitudine che la circonda.
Questa donna, persa in chissà cosa, è una delle ospiti di una delle sezioni femminili dell’ospedale psichiatrico di Accra. L’area in cui si trova prende il nome dell’antico modo di definirlo, Asylum Down. Una costruzione che risale al 1906 (quando il Ghana era ancora protettorato britannico) e dove qua e là si riconosce la struttura di una prigione. Dalla sua nascita fino agli anni Sessanta la gente qui non veniva curata, qualunque fosse il motivo di disturbi o di comportamenti criminali la destinazione era la prigione. Allontanare questa gente dalla società era il mezzo per liberarsi di loro e per ristabilire l’ordine. Oggi, in questo istituto (nel Paese nel frattempo ne sono stati costruiti altri due), ci sono 19 reparti. Per la maggior parte si tratta di cortili ai cui lati si aprono stanze, spesso buie, spesso invalicabili.
L’ospedale psichiatrico di Accra – Galleria di immagini © Antonella Sinopoli. Cliccare per accedere.
Samuel è un omone grande e grosso, indossa abiti almeno due volte più piccoli della sua misura. Ecco perché tiene la cerniera dei pantaloni aperta e la camicia, con colori tipici del wax, è chiusa con soli due bottoni. Contrariamente agli altri, che mi osservano da lontano, lui si avvicina subito, mi dice il suo nome per intero, la sua età, mi chiede il mio nome e comincia a raccontarmi la sua storia. Una storia di violenza ed emarginazione, mi parla anche dei suoi 4 figli, che da tempo non vede e mi chiede alla fine di farlo uscire. Non sa chi sono, non sa che non ho alcun potere.
È nel “reparto speciale”, quello destinato a chi si è macchiato di crimini e che il tribunale ha deciso di inviare qui. Sono persone ritenute non sane di mente e quindi, oltre ad espiare la pena richiedono un trattamento sanitario. Al momento sono 89, 88 uomini e una donna, praticamente isolata.
Si fa coraggio anche un giovane ragazzo che continua a gridare “sono un ignorante, sono un ignorante”, ma sorride – di un bel sorriso aperto – e apre le braccia. Con il suo corpo forma una croce. È la sua resa, chissà, di fronte a qualcosa che non mi dice e che forse non riesce a spiegarsi neanche lui.
Nel reparto donne c’è più frenesia, appena si aprono i cancelli. Una presenza insolita la mia, che spezza la monotonia di giorni che assomigliano l’uno all’altro. Uno dopo l’altro. Non riesco a frenare la ragazza che non solo mi abbraccia, ma mi stringe, non con aggressività, ma con desiderio di abbraccio. E non lo fa solo con me, ma anche con la capo infermiera e una responsabile amministrativa che mi accompagnano.
E poi c’è una ragazza giovanissima, non ha più di 25 anni, che continua ad accarezzarmi gentilmente il braccio, mentre l’altra – che non si allontana un attimo – incrocia la sua mano nella mia – per osservare, è chiaro, le nostre differenti sfumature della pelle. La ragazza che mi accarezza ha un ritardo mentale, l’ha portata qui la madre che ogni tanto viene a trovarla. Ogni tanto.
Tra i 323 ospiti attuali dell’Istituto la maggior parte sono persone che hanno chiesto aiuto di loro iniziativa, altri sono i cosiddetti “vagrant”, gente che vaga per le strade e che qualcuno si preoccupa di riferire ai servizi sociali o portare di sua iniziativa in ospedale, molti altri sono stati dimenticati e non si riesce più a rintracciare le famiglie.
Come l’uomo più anziano, 83 anni. È arrivato qui con una diagnosi di schizofrenia 40 anni fa. Allora non c’erano i cellulari, i parenti non si sono fatti più vivi e ogni tentativo di rintracciarli non ha dato frutti. “Fa parte di questo posto” mi raccontano “questa è la sua famiglia”. Ma la sua, come quella di tanti, è una vita di solitudine. È ormai cieco, sembra semplicemente a causa delle cataratte, e se ne sta seduto e in silenzio, come se non esistesse nulla.
Nel grande dormitorio un uomo sonnecchia sul letto in ferro e senza materasso “continua a dire che nei materassi ci sono i serpenti” mi dice la responsabile del reparto. Il posto non è sporco, ma i bagni sono due buchi nel cemento. “Qui abbiamo bisogno di tante cose – mi dicono – contiamo su donazioni e persone di buon cuore”. E lo Stato, il ministero della Salute? “I fondi che arrivano qui non sono abbastanza” è la risposta. E l’impressione è che ci sia più personale amministrativo, medico, paramedico che pazienti – o detenuti, come appunto sono definiti quelli inviati qui dai giudici.
Secondo il Ghana Center for Democratic Development il coefficiente di accesso alla sanità nel Paese è pari al 39.3%. Questo vuol dire – sempre secondo l’Agenzia di ricerca – che il 69.7% dei cittadini non hanno accesso adeguato alle cure mediche. Eppure non si può dire che nel settore psichiatrico le cose negli anni non siano migliorate, sia dal punto di vista dei servizi che della qualità dei trattamenti.
Oggi il Ghana conta 40 psichiatri e 150 psicologi per 31 milioni di abitanti, sono ancora insufficienti ma è una media positiva rispetto ad altri Paesi. Il sistema di decentralizzazione, inoltre, ha risolto il problema del sovraffollamento (con tutte le questioni che ne derivavano), sistemi di costrizione sono utilizzati solo in casi di estrema aggressività (e nei reparti speciali) ma viene ancora praticato l’elettroshock. “Non è il primo trattamento che prendiamo in considerazione – mi spiega la responsabile del reparto – ma va di pari passo con altre terapie e nel caso queste non diano rapidi risultati”. Tra i casi di persone sottoposte a elettroshock anche quelli di madri in crisi post parto che si rifiutavano di allattare il proprio figlio. “Nel 90% dei casi basta solo una scossa e le persone ritornano in uno stato di ‘normalità’, per un altro 5% non si ottengono risultati e un rimanente 5% comincia a manifestare sintomi che non aveva prima del trattamento” dice la responsabile che afferma di parlare sulla base di dati fondati sull’osservazione di 9 anni di servizio nel reparto.
In ogni caso non è possibile comprendere il settore della malattia mentale e della sua cura senza considerare l’ambiente e la società di riferimento.
Ne abbiamo parlato con il dottor Akwasi Osei, direttore esecutivo della Mental Health Authority, con oltre 40 anni di esperienza e all’attivo numerose ricerche e saggi nel campo della psichiatria. Lunga la sua battaglia per una nuova legge sulla salute mentale e per la de-criminalizzazione dei comportamenti suicidari (norma ancora esistente nel codice penale ghanese).

Quando vado a trovarlo, mi mostra decine e decine di messaggi che tiene, in Whatsapp, in una cartella con il nome “suicidal”. Il suo numero è su Internet, il telefono sempre acceso, anche di notte, perché le persone che chiedono aiuto “e spesso hanno semplicemente bisogno di conforto” sono tante. Molti di questi sono giovani e donne e le motivazioni vanno dalla crisi seguita ad una violenza sessuale al bullismo, ma anche a problemi di natura economica. Si sta lavorando ad un numero verde, ma – dice il direttore – non è facile convincere il ministero a sostenerne la spesa.
Ma cominciamo proprio dall’elettroshock. È ancora molto utilizzato negli ospedali in Ghana?
Si tratta solo di una terapia tra le altre e ovviamente viene utilizzata solo in alcuni casi. Le terapie variano sempre da paziente a paziente e derivano non solo dalla gravità del problema ma anche dal background della persona che abbiamo di fronte, ecco perché è così importante la fase di counselling. Per alcuni può bastare la fase di ascolto, per altri c’è bisogno dell’uso di medicinali, per altri dobbiamo ricorrere all’elettroshock. Abuso? Non è così. Faccio un esempio, se non hai la malaria e ti faccio un’iniezione è un abuso perché non c’è motivo di farti l’iniezione, ma se ce l’hai e c’è bisogno del trattamento specifico e anche forte non sto facendo un abuso, ti sto curando. Quindi se il trattamento dell’elettroshock è praticato all’interno dei confini del giusto intervento, può andare bene per un certo paziente. Ovviamente ci vuole una diagnosi corretta. Chi parla di abusi non capisce il corretto uso di questo sistema.
Cosa pensa, invece, dell’abuso di medicinali per tenere calmi i pazienti?
In passato si usavano troppe medicine, e pesanti negli effetti, per calmare il paziente, è vero, e quando il paziente era aggressivo il solo metodo era quello di legarlo. Ma si tratta del passato e avveniva anche in Europa dove in molti casi gli stessi istituti psichiatrici sono stati chiusi anche se poi ci si è resi conto che questo ha creato altri problemi.
In Ghana, come in tutto il continente africano, i dati parlano di aumento dei casi di disturbi mentali, come lo spiega?
I casi di persone che necessitano di cure psichiatriche sono aumentati anche perché è aumentata la popolazione. Al momento dell’indipendenza, il Ghana aveva una popolazione di 5 milioni di abitanti e ora siamo 31 milioni, quindi parte dell’aumento dei casi è semplicemente dovuto all’aumento della popolazione. Ma ci sono anche altre ragioni: lo stress di una società in evoluzione e in movimento, cambiamenti di vita che generano ansia.
Inoltre, oggi c’è più consapevolezza rispetto alla questione della salute mentale. In passato quando si aveva un problema si andava dallo spiritualista, ora invece le persone si recano nelle strutture specializzate. Devo anche aggiungere, e potreste non essere d’accordo, che l’uso della cannabis e l’abuso di alcol, possono provocare disordini mentali. Confermo che sono in aumento i casi di schizofrenia e depressione e anche i suicidi. Poi bisogna anche tener conto che oggi i media ci danno informazioni che non avevamo prima. Disturbi mentali c’erano anche in passato solo che se ne sapeva meno.
Lei è stato responsabile di un programma definito di “repatriation” che ha portato a svuotare gli ospedali psichiatrici dopo numerose accuse di sovraffollamento e le conseguenze che ne derivavano.
Fino a 3 o 4 o 5 anni fa il numero totale delle persone ospedalizzate (nei 3 ospedali) era superiore a 2.000. Solo il principale ne aveva 1.200, quando ha una capienza di 600 posti letto, quindi molti dormivano sul pavimento. Mi sono reso conto che tanti non avevano più necessità di stare lì, quindi abbiamo cominciato a riportare a casa ogni settimana con i nostri pullman decine di persone. La stampa ci ha criticato ma noi non abbiamo fatto altro che applicare la legge sulla decentralizzazione dei servizi di cura delle malattie mentali così come stabilisce il Mental Health Act 846 del 2012. In base a questa normativa, in ogni ospedale delle singole regioni c’è un settore destinato ai pazienti con disturbi mentali.
Per evitare sovraffollamento, abbiamo anche utilizzato un altro approccio: quando il paziente arriva, lo mettiamo in osservazione per tre giorni, per capire il problema e se è possibile dargli una cura da fare a casa. Solo chi ha bisogno di trattamenti più lunghi e particolari viene ammesso in corsia. È in questo modo che siamo riusciti a ridurre il numero di pazienti. Ora ad Accra ce ne sono meno di 400, 200 nell’istituto di Pantang e circa 150 ad Ankaful.
Parliamo dello stigma legato alla salute mentale…
Lo stigma esiste, certo, e per superarlo occorre un approccio olistico, che comprenda anche la sensibilizzazione e l’educazione sul tema. Può accadere che, se vieni ricoverato per un disturbo mentale, poi torni a casa e scopri che il padrone di casa l’ha affittata ad un altro e che il tuo datore di lavoro ti ha licenziato. Questo non deve più accadere. Però devo dire che le cose stanno lentamente cambiando. Per combattere lo stigma è necessario il sostegno di tutta la società.
Nel Paese, come lei accennava, si continua a rivolgersi a “medici tradizionali” e ai “prayer camps” dove in sostanza si vorrebbe curare con la preghiera e incatenando i più riottosi.
Circa 15 anni fa in Ghana c’è stato uno studio che ha rivelato che solo il 2% della popolazione con disturbi mentali stava ricevendo cure adeguate. Un gap del 98% era una cosa enorme. Oggi credo che invece possiamo dire che il 70-80% di persone che ne hanno bisogno ricevono cure adeguate e questo anche perché abbiamo esteso i servizi alle comunità. Il Governo ha promesso poi la costruzione di due nuovi ospedali psichiatrici, nell’area centrale del Paese, a Kumasi, e al Nord, a Tamale.
Poi c’è un altro aspetto, che è quello della decolonizzazione della salute mentale. Persiste una mentalità coloniale in molti aspetti della nostra vita, compresa la medicina e la psichiatria. Si è spesso pensato che quello che si fa in Europa vada bene per noi, ma invece potrebbe non essere adatto a noi per niente. C’è bisogno di calare le cose nella nostra realtà, capire cosa è appropriato alla nostra cultura e non semplicemente prendere tutto quello che viene da fuori. Noi abbiamo fatto alcuni sforzi proprio nel senso di decolonizzare i nostri servizi e anche la nostra legge sulla salute mentale va in quel senso. La nostra legge, infatti, riconosce la medicina tradizionale, quella che veniva utilizzata prima che i sistemi “moderni” e la medicina ufficiale ortodossa cominciasse ad operare all’interno degli ospedali.
Ancora oggi molte persone fanno riferimento agli erbalisti e pensano che il loro sia un problema che ha a che fare con il mondo soprannaturale. Non possiamo frenare questo, ciò che possiamo fare è riconoscere che questi sistemi tradizionali esistono e farne tesoro. La legge non solo riconosce questi “medici tradizionali”, che sono in prima linea nelle comunità, ma dispone la loro formazione in modo da unire le due forme di cura.
Ci sono persone che non credono a noi psichiatri, ma se vanno nel prayer camps si fanno curare e l’ansia gli passa, allora va bene. Mettere in catene ovviamente non è la soluzione e allora bisogna farglielo capire. Far loro capire che le catene non possono essere una cura e che in alcuni casi è meglio fare assistere le persone da un medico specializzato. Questa per noi è la migliore strada da percorrere. Dobbiamo dire che chi gestisce questi luoghi è convinto di aiutare chi è affetto da disturbi mentali. Negli anni sono state sviluppate delle linee guida che danno indicazioni rispetto al modo di gestire i prayer camps. Tali indicazioni non comprendono abusi come incatenare le persone. Cerchiamo di fare in modo che queste linee guida vengano applicate. Solo così – e con il training di cui parlavo prima – possiamo fermare tali abusi.
[Traduzione in inglese a cura di Abdoulaye Coumbassa]
Grazie ad Antonella Sinopoli si aprono scenari di consapevolezza sulla realtà ghanese ed in generale su quella del Continente Africano, che consentono di acquisire una visione più matura e complessa di quelle realtà, con luci ed ombre naturalmente, ma spesso molto lontane dall’approssimazione culturale alla quale siamo condannati osservandole dall’ Europa.
La ringrazio quindi di cuore per la sensibilità dimostrata nel toccare temi culturali e sociologici così delicati e complessi che, personalmente, mi aiutano moltissimo ad acquisire una corretta percezione di quel Mondo al quale tengo molto.
Impegno pregevole e sensibile, trattato peraltro con la delicatezza che solo una donna è in grado di esprimere.
Grazie Antonella.
Gentilissimo, grazie per leggere e diffondere il lavoro che facciamo.