Migranti, lo stress post traumatico esasperato dal sistema hotspot

L’hotspot di Taranto sembra una fabbrica; è così vicino all’Ilva che le ciminiere circostanti si confondono coi container in cui vengono fatte dormire le persone a gruppi di 8. L’inquinamento dell’aria è evidente: la struttura è ricoperta da una spessa patina di polvere rossa. Il centro di Pozzallo, nella Sicilia meridionale, è un’ex dogana; ha l’aspetto di un vero e proprio carcere, con controlli all’ingresso giorno e notte. Anche l’hotspot forse più mediatizzato di tutti, quello di Moria a Lesbo, è stato descritto come una prigione a cielo aperto.

A differenza che in Italia, in Grecia questi megacentri per migranti non sono necessariamente costruiti sulla costa, con tre lati che danno sul mare. Qui, a fare da restrizione alla libertà di movimento dei residenti sono le stesse isole, da cui è vietato andarsene. Chi viene arrestato in procinto di imbarcarsi clandestinamente sul traghetto per raggiungere Atene, si difende con un “Ho provato a scappare perchè sto diventando matto!

Da tempo, giornalisti e associazioni denunciano i risvolti più agghiaccianti di quello che doveva essere un metodo per “dare sostegno agli Stati membri in prima linea nell’affrontare le fortissime pressioni migratorie alle frontiere esterne dell’UE“, secondo la Commissione Europea. Concretamente, tutti – sia esponenti di organizzazioni non governative che delle istituzioni – negli anni hanno concordato nel dire che si tratta piuttosto di luoghi di esclusione e violazione dei diritti umani, clandestinità e differenza.

Distribuiti alle frontiere d’Europa esistono una ventina di enormi strutture di ricezione, identificazione e – molto più di nome che di fatto – accoglienza; qui vivono, stipati tra sé ma isolati dalle popolazioni del territorio, decine di migliaia di richiedenti asilo.

Le condizioni di vita sono diverse da centro a centro, ma ovunque pessime: in più occasioni sono state giudicate dalla Corte Europea dei Diritti Umani come trattamenti disumani e degradanti inflitti ai migranti. In entrambi i Paesi, questi centri di accoglienza sono accomunati dal sovraffollamento, dalla mancanza di servizi, dagli eterni tempi di permanenza, e dalle ripercussioni che tali fattori inevitabilmente hanno sulla salute mentale delle persone che sono costrette a viverci dentro. 

Lo dimostra uno studio dell’associazione Medici per i Diritti Umani (MEDU), pubblicato lo scorso settembre: il modello dei megacentri ha un effetto patogeno, cioè – per definizione – la capacità di indurre un processo morboso, di provocare malattie. In particolare si parla di post-traumatic stress disorder (PTSD), una forma di disagio psichico correlata a drammatiche esperienze vissute da chi ne soffre.

Il dato conosciuto è che la maggior parte dei circa 1.900.000 migranti arrivati in Europa attraversando il Mediterraneo dal 2015 ha subìto violenze nel proprio Paese di origine, o lungo la rotta migratoria. Di conseguenza, molti di loro presentano problemi di salute mentale nel corso della procedura d’asilo.

L’origine del PTSD è nei traumi, eventi successi prima e durante la migrazione; ma la novità è questa: i fattori di stress nei Paesi di accoglienza – come la ricezione e permanenza in grandi strutture inadeguate allo scopo – possono influire sul disturbo, aggravandolo.

Lo studio evidenzia come chi vive in un grande centro (prendendo ad esempio il tristemente famoso CARA di Mineo, che in passato ospitava oltre 4.000 persone), piuttosto che in quelli di piccole o medie dimensioni (strutture con meno di 1000 residenti), in generale presenta sintomi più gravi di chi è accolto altrove e in condizioni diverse.

Parallelamente, l’ONG International Rescue Committee ha diffuso Cruelty of Containment, un rapporto basato sulle testimonianze di 904 migranti sostenuti dai programmi di salute mentale dell’organizzazione sulle isole di Lesbo, Chios e Samos.

Nelle conclusioni che trae, questa seconda analisi non fa che consolidare la prima: depressione, PTSD e autolesionismo sono presenti negli hotspot tra tutte le persone di età e provenienza; in particolare, almeno due su cinque hanno riferito di sintomi riconducibili allo stress post-traumatico, e addirittura una su cinque ha dichiarato di aver già tentato di togliersi la vita. Dall’inizio della pandemia, queste patologie si manifesterebbero in forma aggravata, con l’aumentare del sentimento di abbandono e la paura per l’impossibilità di mantenere il distanziamento sociale all’interno dei campi.

In Italia, dal rapporto di MEDU è nato un appello firmato da diciotto associazioni contro il cosiddetto “approccio hotspot“, destinato a Governi ed europarlamentari. Si chiede di rivedere il modello di accoglienza, perchè quella in grandi centri come Mineo, o Moria (dove fino all’inizio del 2020 vivevano 20.000 ospiti in uno spazio creato per meno di 3.000), presenta molteplici aspetti deleteri.

Dall’isolamento, alla promiscuità, all’incertezza riguardo la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno, questi costituiscono un ostacolo ai percorsi di integrazione dei migranti, con pesanti costi sanitari, sociali ed economici oltre che umani, denunciano i promotori dell’iniziativa. 

Vari professionisti, rappresentanti di alcuni enti di punta tra quelli ad aver aderito all’appello, hanno rilasciato dichiarazioni a One Global Voice. Mentre si programma l’apertura di sei nuovi hotspots alle Canarie, è il momento opportuno per chiedersi: cosa abbiamo imparato dai megacentri, a livello di salute mentale? Qual è l’esperienza del terzo settore in merito?

Il dottor Alberto Barbieri di MEDU, co-autore dello studio alla base dell’appello, spiega cos’è il PTSD e come si manifesta.

“Il post-traumatic stress disorder è un disturbo psichico causato da eventi traumatici in cui la propria vita o l’integrità fisica sono minacciate. Per esempio, violenze sessuali, torture, minacce di morte, ma anche un incidente stradale o un terremoto.

Di fronte ad abusi e aggressioni, non tutti sviluppano automaticamente i sintomi del PTSD, esistono a seconda dei casi degli strumenti di resilienza individuale. Ma se gli eventi subìti risultano “overwhelming” [opprimenti, danno la sensazione di essere sopraffatti, ndr], allora il PTSD si manifesta, attraverso sintomi che possono invalidare vari aspetti della vita delle persone. 

I sintomi vengono classicamente suddivisi in quattro gruppi:

  • Intrusivi: incubi e ricordi riguardanti l’evento traumatico oppure flashback; la persona rivive l’evento, talvolta come se stesse accadendo qui e ora.
  • Evitamento, sia fisico che psicologico: se si è stati incarcerati si potrebbe aver paura o voler stare il più possibile lontani da persone con le armi, o che portano una divisa, o anche solo che parlano la lingua dei torturatori (per esempio l’arabo, per chi è stato in Libia).
  • Alterazioni negative di pensieri ed emozioni: la persona è vittima dell’evento ma si incolpa di quanto è successo; fa pensieri negativi verso sé (ad esempio “non ho valore, sono sbagliato”) o verso gli altri (“non ci si può fidare, il mondo è pericoloso”). Si tratta di stati emotivi permanenti, con tante emozioni negative (rabbia, paura, vergogna…) e d’altra parte l’incapacità di provare emozioni positive come la felicità.
  • Allarme: stare sempre in guardia, avere reazioni esagerate (come scoppi di rabbia) di fronte a situazioni anche banali, si può ad esempio anche cominciare a bere e attuare comportamenti a rischio.

I traumi interpersonali (cioè quando sono gli altri a farti del male, come nel caso della tortura) hanno effetti peggiori degli altri eventi. Quando una persona ha subìto traumi interpersonali prolungati nel tempo, o molteplici eventi traumatici, si parla di traumi complessi. Questo può dar luogo a una forma particolarmente grave di PTSD, che definiamo “PTSD complesso“.

Si pensi a chi è vittima di persecuzioni nel suo Paese di origine, poi nell’arco del suo percorso migratorio (per esempio, nell’attraversamento del Sahara), poi viene torturato nei centri di detenzione in Libia, infine attraversa il Mediterraneo su un gommone rischiando il naufragio. In questi casi di PTSD complesso praticamente vivi in un inferno, a cui si associa spesso la depressione. In questa situazione, il percorso di integrazione nel nuovo Paese diventa molto difficile.”

Richiedente asilo dell’hotspot di Samos descrive il proprio stato di salute mentale. Foto per gentile concessione di Jérome Fourcade

Fabrizio Coresi è antropologo di formazione, con specializzazione in etnopsichiatria. Dal 2005 lavora nel terzo settore, principalmente con migranti richiedenti asilo; attualmente è Programme Expert sul tema migrazione presso ActionAid Italia.

“Confermo, anche in base alla mia esperienza lavorativa, quanto emerso dal rapporto di MEDU. Nei megacentri, l’assenza di attenzione specifica (ci sono servizi fondamentali come la mediazione culturale che sono garantiti concretamente per pochi minuti al giorno, quando ci sono) ha un effetto traumatizzante.

Non è il cambiamento a creare problemi alle persone straniere, ma il modo e il tempo in cui si chiede loro di farlo. Le poche cose che si ottengono, le si ottengono attivando l’identità di vittima: solo un individuo docile e silente, per quanto disorientato, è quindi accettabile, e in questo contesto le persone straniere purtroppo imparano […] il ruolo che sarà loro riservato nella nostra società e le condizioni per garantirsi l’accesso ai diritti. 

Usciranno da questi megacentri individui incapaci di incidere sulla propria vita, o che si percepiscono come tali, fino a generare una patetica immagine di sé che sfocia talvolta in un vero e proprio disagio – anche psichico, relativo alle relazioni della persona con il suo nuovo mondo.

I megacentri diventano così anche un bacino per la manodopera da sfruttare domani, una fabbrica di precarietà funzionale. Non credo che ci sia un disegno lucido dietro, ma di fatto, evidentemente, persone fragili, inconsapevoli o prive di diritti fanno comodo al sistema produttivo. E se tutto questo è vero allora dobbiamo riflettere sul fatto che quell’esperienza traumatica spesso associata alle migrazioni possa essere sì frutto di un viaggio, ma anche della cosiddetta accoglienza (o meglio del business sulle spalle della vera accoglienza), che a volte agisce alla stregua di una vera tortura.”

Loredana Leo è avvocata dell’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) e coordinatrice del progetto In Limine, che si occupa di monitoraggio e azioni di contenzioso strategico contro le politiche di frontiera, in chiave giuridica; a ciò si aggiunge l’advocacy e la tutela legale di coloro che subiscono tali politiche.

“L’appello di cui ASGI è tra i promotori nasce dalla constatazione che il nuovo patto UE sulle migrazioni non supera l’approccio hotspot ma lo enfatizza, rafforzando alcune prassi codificatesi nei Paesi di frontiera, come l’Italia. Il patto rischia di rafforzare l’approccio dei megacentri dal punto di vista delle procedure.

L’appello in questione pone molto l’accento sulla salute mentale dei migranti, perché si vuol mettere in luce il fatto che la procedura hotspot non dia la possibilità di far emergere vulnerabilità. Sono tempi di procedura eccessivamente brevi, ma troppo lunghi di trattenimento, per cittadini stranieri che si trovano spesso in un centro chiuso. Il trattenimento negli hotspots è un trattenimento di fatto, quindi non sottoposto ad alcuna revisione giudiziale. 

Ci sono quindi due aspetti da considerare: le difficoltà nell’emersione della vulnerabilità e il peggioramento di traumi e fragilità preesistenti, con effetto degenerativo. 

Quando parlo della difficoltà nell’emersione della vulnerabilità mi riferisco ad esempio alle vittime di tratta, spesso poste in situazione di promiscuità nei megacentri; è difficile individuare una vittima di tratta in queste condizioni, perchè non è una vulnerabilità evidente, come potrebbe esserlo un nucleo famigliare monoparentale.”

Ester Russo riporta la propria esperienza sul tema in qualità di psicoterapeuta per Medici Senza Frontiere (MSF) in Italia.

“La dispersione delle soggettività, il non essere visti, l’alienazione come dimensione esistenziale e cronica, sono tutte condizioni certe che attraversano le persone dentro maxi centri come quelli in cui abbiamo lavorato negli ultimi anni, tutte circostanze che allontanano fortemente da ciò che potremmo definire accoglienza, benessere e salute.

Al centro del nostro lavoro mettiamo sempre le persone e uno degli obiettivi che perseguiamo per rispondere ai loro traumi ed esperienze feroci che attraversano prima dell’arrivo in Europa è proprio quello di restituire dignità, laddove questa è stata fortemente messa in crisi da violenze e torture nei Paesi di origine e di transito. 

Non si può continuare a restare ciechi di fronte a tali sofferenze a cui bisogna rispondere restituendo umanità a tutti i livelli, riducendo talvolta la possibilità di cronicizzazione e ritraumatizzazione.”


Giulia Gori fa parte della Federazione Chiese Evangeliche in Italia (FCEI), che ha elaborato una proposta di “vera” accoglienza. Attraverso il progetto Mediterranean Hope, la Federazione realizza corridoi umanitari per il reinsediamento in Italia di profughi dal Libano, essenzialmente vittime del conflitto siriano. I beneficiari dei corridoi sono persone in condizioni di vulnerabilità. Una volta in Italia presentano domanda di asilo e sono inserite per lo più in dispositivi di accoglienza diffusa (cioè in appartamenti), dove vengono supportate attraverso i vari servizi erogati per la durata della loro procedura.

“Tramite i corridoi umanitari arrivano persone con un trauma. Alcune sono state detenute e hanno subìto tortura, ma il requisito per prendere parte ai corridoi è la vulnerabilità in senso lato: un nucleo famigliare con minori, una donna sola, dei problemi sanitari importanti [non per forza legati alla salute mentale, ndr].

Stiamo cercando di arricchire il counseling psicologico pre-partenza [in collaborazione con il centro di prevenzione dello stress e dei traumi Metanoia, ndr]; ci siamo resi conto che ci sono dei fattori psicologici che minano anche il percorso migratorio che i beneficiari stanno per abbracciare. Si tratta di un percorso preparatorio al fatto di entrare a far parte di una nuova cultura, senza per questo abbandonare la propria.

Stiamo anche lavorando per un’apertura di corridoi dalla Libia, il che ci porrà di fronte ad una realtà più drammatica di quella vista finora. Dovremo mettere in piedi un sistema di supporto psicologico e psichiatrico molto più ampio, anche grazie ad associazioni della diaspora africana in Italia, che possano aiutarci a fornire un servizio culturalmente adatto anche post-arrivo. 

L’approccio hotspot è evidentemente disumanizzante e non funziona, oltre a non rispettare la dignità dell’essere umano e del migrante: non si fa accoglienza negli hotspot; si prendono le impronte digitali, fondamentalmente, e si aspetta che la burocrazia faccia il suo corso. Non sono convinta che l’unica accoglienza valida sia in appartamento, ma un’accoglienza che dia dei servizi, anche in una struttura di medie dimensioni. Il centro non è per forza una violazione dei diritti umani, se ben strutturato e servito.”

[Salvo dove diversamente indicato, tutte le foto dell’articolo sono di Nicoletta Novara per l’ONG Still I Rise, scattate all’interno dell’hotspot di Samos, Grecia]

3 thoughts on “Migranti, lo stress post traumatico esasperato dal sistema hotspot

  • Articolo molto interessante!!!!! Grazie.

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  • Complimenti per l’interessante articolo. Ci fa capire come le condizioni disumane in cui sono obbligati a vivere i migranti siano anche causa di forti traumi incancellabili. Grazie!

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  • Certo viene spontaneo pensare che in fondo basterebbe ascoltare il buon senso: persone maltrattate continuamente non possono che stare male. E persone così non possono che avere infiniti problemi anche quando escono da questi incubi. E dire che da loro poi si pretendono “prove” di buoni comportamenti e addirittura di “buone maniere” che a tanti figli viziati delle società ricche mai si chiederebbero!

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